Il nodo della Legge di Bilancio

Foto di Diane Helentjaris su Unsplash

Con la redazione della NADEF si apre la lunga marcia per arrivare, entro fine anno, all’approvazione della Legge di Bilancio che, quest’anno, si mostra come un percorso ad ostacoli. Non è un mistero per nessuno che le risorse a cui attingere siano estremamente ridotte quando, per la situazione contingente segnata dalla stretta fiscale delle BCE, che sta spingendo il continente in recessione, e il caro vita, sarebbe necessaria una manovra espansiva per permettere all’economia italiana di superare l’impasse e rilanciare la crescita economica che, dopo due anni di valori decisamente positivi, sta arrancando.

Si potrebbe dire che “la coperta sia corta” ma, ora, è caccia alle risorse necessarie che, pare, siano oggi quantificabili in una trentina di miliardi di euro a pronte di una disponibilità di appena 12 miliardi.

Gli obiettivi finali sono noti e importanti, tra cui la resa strutturale del taglio del cuneo fiscale per i redditi medio-bassi, il sostegno alle famiglie, un nuovo intervento sulle pensioni e sulla sanità che dovrebbe essere risolutivo per le criticità nate nel periodo post-pandemico. Non si tratta certo di opere di poco conto anche perché sono indirizzate a risolvere principalmente una delle questioni più sentite all’interno del Paese che è quella salariale e, di conseguenza, della capacità di acquisto.

Detta così sembrerebbe, quasi, la solita mossa elettoralistica, basata su bonus e quel principio, indicato anni fa da Milton Friedman, dell’helicopter money usato e abusato negli anni dei governi Conte e che ha squassato i conti pubblici. Nonostante i provvedimenti più discussi siano stati il Reddito di Cittadinanza, bandiera del M5S, e la Quota 100 pensionistica, spinta dalla Lega durante il Conte 1, che hanno portato degli aggravi di spesa non esattamente produttivi, diciamo, la vera “spada di Damocle” che, oggi, pende sulla testa di Giorgia Meloni è rappresentata dai bonus edilizi che, prendendo a prestito una celebre espressione di Mario Draghi negli anni della BCE, erano stati definiti un “bazooka” volto a rilanciare l’economia italiana dopo la recessione indotta dai piani contenitivi per il Covid-19 ma che sono diventati un buco finanziario che segnerà per anni la finanza pubblica.

Qualcuno ricorderà le parole dell’ex premier sui costi relativi al “bonus facciate”, stimato in 6 miliardi scarsi, e sul “superbonus 110%”, stimato in 35 miliardi: bene, il computo esatto è stato di 26 miliardi di euro per il primo e di circa 100 miliardi di euro per il secondo, con un “buco di bilancio” non preventivato di circa 85 miliardi. Queste cifre non sono certo nuove, poiché l’UPB (l’ufficio parlamentare di bilancio) aveva già diffuso le sue analisi a marzo scorso quantificando, anche se in maniera molto più prudenziale, l’apporto dei bonus edilizi sia sulla crescita economica sia sul bilancio dello stato.

A lato di un apporto dell’ 0,5% sul PIL negli ultimi due anni, quindi significativo ma non trainante, l’impatto finanziario sui conti dello stato è stato devastante, anche per via della cedibilità senza limiti del credito fiscale, come prevista all’inizio, che ha, di fatto, raddoppiato se non, in alcuni casi, triplicato i costi di intervento, tanto che, alla fine, l’effetto moltiplicatore sia stato pari allo 0,28, cioè che ogni euro speso ha generato 28 centesimi di introito; altro che il “provvedimento che si paga da solo” propagandato nel 2020.

In un recente articolo su Il Corriere della Sera, Federico Fubini ha indicato che gli strascichi di questi provvedimenti potrebbero impattare sui conti pubblici per circa un secolo e mezzo e questo è lo scenario in cui si sta strutturando la nuova legge di bilancio.
Il punto, quindi, non è, ora, cosa ci si possa aspettare ma come finanziare i provvedimenti necessari a rendere strutturali gli interventi fatti finora, con scadenza al 31 dicembre, sui salari e sul sostegno ai redditi più bassi in previsione di un 2024 in credibile affanno e “limitare i danni” derivanti dal brusco stop all’economia causato dalla miope politica monetaria della BCE che, per contrastare un’inflazione da loro non prevista, ha attuato la più pesante stretta monetaria della sua storia, incurante dei riflessi che questa possa avere sul tessuto produttivo e sulla domanda interna all’Euroarea.

Per queste ragioni da un lato è scattata una seria spending review all’interno dei ministeri, sia a livello di struttura sia a livello di previsioni si spesa, e dall’altro si comincia a ragionare su nuove imposte partendo da quella sugli “extraprofitti” bancari a un nuovo prelievo su multinazionali e grandi aziende (si parla di “minimum tax”, quindi di un balzello che colpirebbe chi già non paghi l’IRES in Italia) a, in caso estremo, a una nuova componente fiscale a incremento dell’accisa sui carburanti. In pratica tutto quello che l’Italia non ha bisogno ora per ricominciare a crescere dopo anni di stagnazione.

In tutta onestà, però, bisogna ammettere che l’attuale maggioranza di governo non abbia avuto un’eredità agevole da parte di chi l’abbia preceduta e, d’altro canto, anche a questi non possano essere addebitate tutte le colpe relative alle criticità che, oggi, si stanno incontrando poiché la maggioranza giallo-rossa ha dovuto fronteggiare una delle peggiori crisi economiche che il Paese abbia visto fin da quella petrolifera degli anni 70 e il governo Draghi ha dovuto, poi, approntare il PNRR per non perdere i fondi europei destinati al sostegno della ripresa e recuperare la caduta del PIL registrata nel pesantissimo 2021 anche avallando i provvedimenti pedestri e populisti, come il “superbonus” e la cessione dei crediti di imposta (seppur con nuove limitazioni per evitare ulteriori distorsioni), per prevenire il blocco dei cantieri già avviati e creare nuovi danni a cittadini e imprese. Non esistendo “pasti gratis”, però, qualcuno quei conti lasciati in sospeso avrebbe dovuto pagarli e il veloce mutamento dello scenario internazionale ha anticipato le criticità di bilancio a oggi e trovare una soluzione non sarà certo facile.