Leggere la realtà senza manometterla con le proprie ideologie

L’articolo di Sandro Veronesi “In panne i laici, cattolici avanti”, apparso venerdì scorso sul “Corriere della sera”, mi trovò intento a rileggere i libri “Dio non è grande” di Cristopher Hitchens e “Il Cristianesimo così com’è” di Clive Staples Lewis. L’autore del primo, saccente, strafottente, ironico verso i credenti di ogni religione, presuntuoso fino al parossismo, mi lascia, ancora una volta, una profonda tristezza. L’argomentare del secondo, invece, è razionale, sereno, rispettoso verso tutti, credenti e non credenti. Un vero dialogo a distanza che lo scrittore, convertito dall’ateismo al cristianesimo, sente di dovere intrecciare con i lettori.

L’apodittica e infondata affermazione di Hitchens che “la religione avvelena ogni cosa”, non convince nessuno, nemmeno chi, come lui, deve per forza credere al “dogma” che dal niente è venuta prima la materia, poi la materia vivente, infine quello straordinario, unico, irripetibile essere amante e pensante che è l’ uomo. Non nascondo che l’articolo di Veronesi mi aveva meravigliato per l’onesta, obiettiva, lettura fatta di queste giornate di paura e di sconforto, e – lo ammetto – per i complimenti rivolti al Papa, ai preti, e quindi, anche a me. Leggendo, notavo una certa delusione per l’attuale laicismo nostrano, che portava l’autore a fare paragoni con il variegato mondo dei cattolici italiani. Alla gentilezza si risponde con la gentilezza, perciò avevo deciso di scrivere una sorta di risposta per dire il mio grazie a Veronesi.

L’amico che mi aveva segnalato l’articolo si era preoccupato di raccomandarmi: “Un’analisi condivisibile, che non ci deve ubriacare d’orgoglio ma caricare di responsabilità“. Quale orgoglio! E perché, poi? I credenti sanno di non essere migliori di nessuno, ma solo di poter fare affidamento su una forza incredibile che viene dall’alto e che permette a tutti, se solo lo vogliono, di fare “qualcosa di bello per Dio”, per se stessi e per la società. A distanza di soli due giorni, ecco, domenica, apparire sullo stesso giornale, a firma di Galli della Loggia, un articolo dal titolo: “Perché la Chiesa riesce meno a fare politica”. Non ne ho la certezza, ma, a prima vista, mi è sembrato essere stato pensato per fare da contraltare al primo. Una sorta di riequilibrio delle parti.

Secondo il nostro, più che politico quello di papa Francesco appare un “pontificato ideologico”. Gli interlocutori del Papa sarebbero sempre scelti in “una parte soltanto della società, quella meno favorita”. Quel che più risalta, però, tra le altre cosucce che egli rimprovera al Papa è “la diffusa assenza … di qualunque esortazione alla necessità del pentimento e della conversione o a scoprire il senso cristiano della vita e della morte, ovvero la verità della trascendenza … È così alla fine quel discorso privo di una significativa innervatura religiosa, resta solo un discorso ideologico, di una ideologia a sfondo populistico- comunitario – anticapitalistico. Non dissimile da altri in circolazione specie nel Sud del mondo”.

Siamo alle solite. Niente di nuovo sotto il sole. Si rimane allibiti. A voler mettere insieme le esortazioni, le omelie, le catechesi del Papa, anche solo in questi mesi di pandemia, ci vorrebbe una collana di libri. La parola di Francesco è stata sempre rivolta a tutti, a cominciare da coloro che nella Chiesa occupano posti di responsabilità. Gli inviti alla conversione che ci sono stati rivolti – a volte duramente – pur volendo, non si possono contare. Il richiamo alla santità è costante. Francesco, come i grandi Padri della Chiesa, ha il dono della semplicità, sa scandagliare, illuminare l’animo umano con una profondità che disorienta e conforta. Solo Dio sa quanta forza e quanta speranza hanno ricevuto da lui credenti e non credenti in queste settimane buie e dolorose. Una cosa è certa, egli non si allontana di un millimetro dal messaggio del Vangelo e della Tradizione. E se privilegia “quella parte meno favorita della società” è solo perché il suo cuore palpita all’unisono con quello di Gesù.

No, amici cari, di destra, di sinistra, di centro, il servizio ai poveri, nella Chiesa, non è facoltativo. Per chi si professa cristiano, dar da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, preoccuparsi dei malati e dei carcerati, spalancare le porte ai derelitti, e invitare i potenti del mondo a fare altrettanto, non è un mero calcolo politico. Se così fosse, sarebbe un peccataccio di cui pentirci, perchè non avremmo servito ma ci saremmo serviti dei poveri. Tutto è dono, a cominciare da quelle realtà verso le quali l’umanità, sovente, ha dimostrato tanta ingratitudine da pagarne poi le conseguenze: l’aria, l’acqua, la terra, la famiglia, la vita nascente.

Un gesto di carità vale più di mille discorsi sulla carità; una vita salvata vale più di tanti dibattiti sul valore della vita. In questi giorni di forzata clausura, tanti poveri sarebbero rimasti a digiuno se la Chiesa di Papa Francesco non avesse spalancato loro le porte. Tanti bambini, felici e sgambettanti nel grembo delle mamme, sarebbero finiti nelle fogne per il timore dei genitori di non poterli mantenere. Le comunità cristiane – tra cui la nostra – attente alla voce di Dio, della coscienza, del Papa si sono fatte avanti e con rispetto, amore, hanno donato quel poco che avevano, convinti che “chi salva una vita salva il mondo intero”. Quelle vite hanno continuato a vivere, nasceranno tra qualche mese e sarà una gioia immensa. Occorre emarginare il male in tutte le sue forme e per farlo non bisogna disperdere le forze, ma restare uniti e leggere la realtà così come è, senza manometterla con le proprie ideologie.