Il Covid non è mai stata una normale influenza: ecco perché

Una rilevante analisi (Iwasaki A., Putrino D) ha considerato le caratteristiche fisiopatologiche del long COVID, patologia che si è caratterizzata nel corso di questa pandemia e che si stima abbia colpito più di 65 milioni di pazienti, che hanno presentato un ampio spettro di diversi sintomi, stimati in numero di circa 200, con il coinvolgimento praticamene di ogni organo. A dispetto di questa ampia diffusione, la malattia presenta ancora lati oscuri che non permettono di acclarare appieno la diagnosi e soprattutto la terapia. In questa breve analisi, vengono inoltre elencati gli aspetti che possono rivestire un ruolo rilevante nella genesi del long COVID, vale a dire: il reservoir virale, l’autoimmunità, la riattivazione di un virus latente, il danno tissutale e la relativa disfunzione d’organo.

Vengono anche studiati i biomarcatori utilizzati per meglio definire la diagnosi e ricordati gli studi attualmente in corso che impiegano diversi farmaci (antivirali, anticoagulanti, immuno-modulatori) per la cura di questa malattia. La diminuzione a livello mondiale dei contagi e dei decessi si è ancor di più consolidata in questo ultimo periodo, con i numeri dei nuovi contagi e dei decessi che si sono dimezzati, essendo rispettivamente 6,7 milioni e circa 64.000, cioè -92% e -47% rispetto a quanto osservato nelle precedenti settimane (dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – OMS). Altrettanto favorevole risulta essere la situazione epidemiologica italiana (pur in presenza di una minore esecuzione di test diagnostici) che ha evidenziato una diminuzione del 3% dei ricoveri ospedalieri, secondo quanto riportato nell’ultimo rapporto Fiaso. Si evince inoltre dalla stessa fonte, che la decrescita dei ricoveri “per” COVID-19, cioè che presentano insufficienza respiratoria e polmonite, si è ulteriormente ridotta, essendo pari a -13,2%.

I ricoveri dei pazienti “con” COVID-19, cioè solo positivi al virus, ma senza sintomi respiratori o polmonari, risultano essere stabili e pari al 69% del totale dei pazienti. Questi numeri, salvo sorprese che al momento non sembrano probabili, indicano in modo chiaro ed inequivocabile, che dopo tre anni di pandemia, questa si sta lentamente esaurendo ed entrando in una fase endemica, cioè di “convivenza” con il virus. A fronte di questa positiva evoluzione, va però segnalato che i dati epidemiologici indicano una differenza significativa di casi a seconda dell’area geografica considerata. Ad esempio, ci sono 271.900 casi COVID-19 per milione di persone in Europa e solo 8800 per milione in Africa. Questi risultati così contrastanti tra di loro devono essere oggetto di un’attenta analisi per comprendere perché, pur essendo l’Africa per numero di popolazione il secondo continente al mondo, il numero di casi COVID-19 rappresenta solo il 3% dei casi mondiali. Per questo è stato condotto uno studio (Nicole E Kogan) che ha considerato i dati sierologici ottenuti in 12 nazioni africane, così da disporre di dati certi per formulare una possibile ipotesi su un numero di casi che il più possibile si avvicini alla realtà. Si è potuto così ricavare, sulla base di questa metodologia, una serie di fattori di moltiplicazione dei casi, che crescono da 1 a 2 a Capoverde, e da 1 a 3795 nel Malawi. Da questa esperienza emerge quindi che il numero dei casi in Africa è largamente sotto stimato e per questo è necessario identificare modalità nuove, per sempre meglio studiare la reale diffusione della pandemia COVID-19 anche in questo continente.

Due varianti di interesse (VOI), B.1.1.318 e B.1.525, sono emerse in Nigeria durante la seconda ondata di infezione da SARS-CoV-2 e da lì si sono poi diffuse in altre parti del mondo. Lo studio di queste varianti e della loro successiva diffusione nel continente africano si è rivelato interessante, perché ha dimostrato il ruolo che riveste l’analisi genomica se viene associata ai dati relativi ai movimenti delle persone e dei contagi, per monitorare e seguire la diffusione delle varianti nell’ambito della popolazione generale e di specifiche aree geografiche (Olawoye IB et). Certamente un effetto negativo che è strettamente correlato alla pandemia COVID-19 è stata la minore attenzione nei confronti di diverse patologie, comprese quelle ad alto impatto in termini di sanità pubblica, come per esempio la tubercolosi. Uno studio condotto in Brasile in 5 città analizzate per 6 mesi (Iane Coutinho), ha indicato che nel corso della pandemia, si è osservata una diminuzione molto evidente delle prescrizioni relative al trattamento preventivo della tubercolosi, senza che questa si associasse ad una ridotta aderenza all’assunzione delle terapie. Questo fenomeno, secondo i ricercatori, è espressione di una buona capacità nell’aver mantenuto le persone in trattamento, ma purtroppo indica anche uno scarso successo nell’identificare nuovi soggetti da sottoporre a profilassi antitubercolare.

Uno studio condotto dal gennaio 2020 al gennaio 2022 (Olaker VR), ha valutato il rischio di una neo diagnosi di un qualunque patologia legata all’abuso di alcol nel corso della pandemia COVID-19. A questo proposito, è stata studiata una coorte di circa 3 milioni di pazienti nei quali è stata valutata la diffusione di queste specifiche patologie in chi aveva sofferto di COVID-19. Si è osservato un numero fluttuante di nuove diagnosi legate all’abuso di alcol che sono inizialmente cresciute, per poi decrescere e crescere nuovamente nel corso degli anni di questa pandemia. Da questo risultato emerge che esiste un elevato rischio di osservare disturbi legati all’abuso di alcol dopo l’infezione da COVID-19, anche se le fluttuazioni osservate portano a valorizzare anche le circostanze che accompagnano la pandemia, specialmente la paura e l’ansia ad essa connesse che nel corso degli anni si sono accentuate. La presenza di uno stato di immunodepressione consente al virus di replicarsi più a lungo, con il rischio di far emergere delle nuove varianti. Uno studio (Gliga ) condotto in 57 pazienti immunocompromessi, infettati con le varianti Omicron, che avevano ricevuto il monoclonale sotrovimab da solo o in combinazione con remdesivir, ha dimostrato che esiste un importante rischio  legato ad una prolungata replicazione virale, che favorisce la comparsa di mutazioni, responsabili dell’inefficacia terapeutica del monoclonale stesso.