La “terza Pasqua”, esempio per la Chiesa post-Covid

Il mattino di Pasqua profuma di risurrezione: il sepolcro aperto, il pianto di Maria di Magdala che si tramuta in gioia, la corsa di Pietro e del discepolo amato; ma anche l’affetto materno delle mirrofore e la parola dell’angelo: “è risorto, non è qui”…E ci sembra di vedere la luce di primavera.

Ma non poteva esserci risurrezione solo per il Maestro. Anche i suoi amici dovevano sorgere, e finalmente, a Pentecoste, dopo i cinquanta giorni di lockdown, si apre anche il Cenacolo. Certo, era il luogo della attesa dello Spirito in obbedienza alla parola di Gesù, ma ormai stava diventando un po’ un altro sepolcro, e forse ritornava nei loro cuori la parola dei due di Emmaus: “noi speravamo, ma…”. Il Risorto però non li aveva abbandonati, e “tutti furono colmati di Spirito Santo”. E Pietro esce fuori, e parla come un angelo: “Dio lo ha risuscitato”. E’ la seconda Pasqua, la Pasqua della Chiesa. E una nuova storia comincia…

Ma non c’è due senza tre! Ed è sulla terza Pasqua, che voglio fermarmi un po’. E’ la Pasqua di “un uomo, storpio fin dalla nascita; lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta Bella, per chiedere l’elemosina”. Un uomo senza nome, costretto da una malattia invalidante e inguaribile a stendere la mano per chiedere qualche soldo: un malato e un povero… La vicenda è raccontata dagli Atti degli Apostoli (al capitolo 3, versetti 1-10), che leggiamo ogni giorno in tempo di Pasqua. La tessitura del testo, che ci consegna il primo miracolo compiuto dalla Chiesa nata a Pentecoste, “ci costringe” a pensare, nella sua incandescente bellezza: “Fissando lo sguardo su di lui, Pietro insieme a Giovanni disse: Guarda verso di noi. Ed egli si volse a guardarli, sperando di ricevere da loro qualche cosa. Pietro gli disse: Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina. Lo prese per la mano destra e lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e, balzato in piedi, si mise a camminare; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio”. Un’elemosina mancata, un uomo risorto e diventato discepolo!

Ed ecco la lezione per noi: è proprio una mancanza (“non possiedo né oro né argento”) che rende possibile la risurrezione “nel nome di Gesù Cristo”. Perché se avessero avuto i soldi non ci sarebbe stato alcun miracolo, e quell’uomo sarebbe rimasto lì, contento, a mendicare…Non dobbiamo allora aver paura di essere e diventare, come ci chiede ogni giorno Papa Francesco, “una Chiesa povera per i poveri”. Perchè confidare nel nome di Gesù Cristo è l’unica vera ricchezza consentita alla Chiesa: “quando voi, a scuola, a casa, per strada, in autobus, invocate Gesù, nella fede, non nell’udito sensibile, vi risponde anche lui chiamandovi per nome. Se sapeste cosa si muove in cielo e sulla terra quando desideriamo Gesù, quando pronunziamo questo nome!” (card. Marco Cè).

La Chiesa post-Covid risorgerà soltanto se metterà al centro del proprio amore e della propria vita i poveri e i malati, non tanto facendo qualcosa per loro, ma imparando da loro, che sono la carne viva di Cristo. E dovremo avere il cuore stretto quando nelle nostre assemblee eucaristiche non ci saranno “i nostri signori e maestri” (ancora San Vincenzo), perché la Pasqua non sarà celebrata nella sua pienezza!

Ma ho molta speranza, pensando ad esempio agli amici della Comunità di Sant’Egidio, che nelle sere fredde dell’inverno uscivano ad incontrare chi vive per strada e sono capaci di coinvolgere tanti, credenti e non credenti, nel loro amore per i poveri. Perchè “il volto di altri – che diventa ‘tu’ – continua ad aprire il cuore di molti, che non hanno paura di mettere in gioco la propria vita esprimendo la loro affezione verso il povero, il malato, il profugo, l’abbandonato” (Mauro Magatti al Convegno ecclesiale di Firenze).

Questa, allora, è la Pasqua alla quale siamo chiamati: nella memoria gioiosa e grata della Risurrezione di Gesù, la risurrezione della Chiesa e di quanti il mondo considera pietre di scarto.

Mons. Calogero Marino, vescovo della diocesi di Savona-Noli