La pantomima dei Papi contrapposti

Va tristemente di moda parlare di ciò che non si conosce. Tra i tanti esempi, ne prendo uno che mi ferisce da vaticanista e da credente. E’ alla ribalta mediatica un’inesistente contrapposizione fra i pontificati, storicamente falsa ed emotivamente stucchevole quanto rileggere un testo biblico del quarto secolo avanti Cristo secondo la mentalità relativistica contemporanea. Partiamo dalla realtà: il papato è come un abito. Si diventa Papa restando l’uomo che si era, quindi ognuno ha la propria personalità, la propria storia, i propri riferimenti culturali e teologici. Ma dal Concilio Vaticano II la continuità tra i successori di Pietro è innegabile. Solo strumentalizzando si può usare un pontificato contro l’altro. Tre premesse storico-teologiche, proposte dall’arcivescovo Vincenzo Bertolone, aiutano a stabilire dei giusti argini argomentativi e sgomberare il campo da ogni semplificazione o travisamento.

La prima è che è imprescindibile muovere dalla consapevolezza che non è possibile abbracciare la complessità storico-teologica di ciascun pontificato neanche in una corposa monografia, soprattutto quando le singole esistenze dei papi e gli eventi (ecclesiali e civili) non hanno ancora subìto la sedimentazione di almeno cinquant’anni, come si fa per l’accesso critico alle fonti di archivio. Del resto, i tempi della storia sono lunghi e una certa distanza è necessaria per avere una corretta intelligenza delle figure, delle problematiche, dinamiche e relazioni che ne compongono i vari tessuti; distanza che ancora non autorizza a valutare eventi e personaggi. La seconda questione riguarda il rischio insito in una comparazione metodologica tra figure differenti sia per provenienza geoculturale, che per formazione e contesti di elezione. E questo sotto il profilo sia teologico, sia storico. Quanto all’aspetto teologico, perché è ovvio, ma va comunque precisato, ogni personalità esprime qualcosa di unico ed irripetibile, e poi ha goduto di doni unici dello Spirito Santo. Quanto all’aspetto storico è la stessa evoluzione degli ambiti e delle problematiche a rendere azzardata una qualsiasi comparazione tra chi è vissuto in anni diversi. Ciò a fortiori se si considera che i cambiamenti socioculturali avvengono oggi in maniera sempre più rapida e passaggi che, qualche tempo fa, avremmo rubricato come “generazionali”, si compiono invece nel giro di pochi anni – quando non addirittura di pochi mesi, generando non tanto epoche di cambiamento, ma veri e propri cambiamenti di epoca.

La caratterizzazione dei personaggi che sono stati successori di Pietro sul soglio papale può stuzzicare l’immaginazione e risultare accattivante sotto un’angolazione mediatica, ma da un punto di vista squisitamente storico-pastorale rischia sempre la semplificazione. Il terzo criterio è, infine, di natura prettamente teologica e s’identifica con quel principio dell’”ermeneutica della riforma nella continuità”, fissato da papa Benedetto XVI quale autentico criterio interpretativo dell’insegnamento e dell’evento conciliare celebrato dal 1962 al 1965. Si tratta, del resto, di un principio che potremmo definire intrinsecamente evangelico, perché vi trovano eco le parole di Gesù, che non è venuto ad abolire la legge e i profeti, ma a dare compimento. Tale principio inoltre è in sintonia con quello dell’analogia fidei, per cui, nell’articolazione della fede ecclesiale, ogni elemento trova la propria collocazione soltanto se è in armonia con gli altri. Nella vita della Chiesa, poi, laddove sia in questione la materia di fede, non può mai darsi rottura o discontinuità. 

Nessun principio di fede è suscettibile di negazione o superamento, ma tutt’al più di approfondimento. Si approfondisce, cioè, la comprensione del mistero rivelato, in maniera che la sua comunicazione trovi delle modalità conformi ai tempi. Ma il contenuto di fede non muta, perché non può mutare. Non ci riferiamo evidentemente a singole dottrine teologiche o tradizioni ecclesiali, che possono essere legate all’evo storico in cui sorgono, bensì agli elementi sostanziali del depositum fidei, che la Chiesa accoglie dalla Tradizione e custodisce e insegna attraverso il suo Magistero (Dei Verbum 10). In termini più concreti, l’innegabile rinnovamento che il Concilio Vaticano II ha portato è di ordine teologico-pastorale, riguarda cioè l’aggiornamento dell’atteggiamento che la Chiesa è chiamata ad assumere alla luce delle mutate circostanze storiche, dovendo stare nel mondo contemporaneo, pur non essendo soltanto di questo mondo. Ciò appartiene alle coordinate ermeneutiche dettate già all’apertura della grande assise ecclesiale da Giovanni XXIII  (Gaudet Mater Ecclesia) e successivamente a più riprese confermate – implicitamente ed esplicitamente – da papa Montini. L’ermeneutica della riforma nella continuità a ben vedere non è un’invenzione di Benedetto XVI, ma è già presente – anche se non col medesimo grado di formalizzazione tematica – nell’ermeneutica dei due pontefici del Vaticano II: Roncalli e il suo successore, Paolo VI.