Indy è morta ma la sua vita non era un’inutile sofferenza

Foto di Ralph da Pixabay

Indy è morta. “L’alto livello di dolore e sofferenza sperimentata da Indy è contrario al suo miglior interesse”, così si legge nella sentenza del giudice cui avevano fatto ricorso i genitori nell’estremo tentativo di dare alla loro figlia di otto mesi la possibilità di essere curata nonostante la terribile malattia diagnosticata. I giudici inglesi hanno quindi sentenziato che la sua vita fosse inutile sofferenza. La cultura eutanasica che sottende a questa decisione rischia di estendersi sempre più. I giudici hanno infatti giustificato la loro decisione sulla base della “sofferenza” della bambina, ma la sofferenza umana è molto più vasta, varia e pluridimensionale di quella di cui si occupa la medicina, intesa come scienza del curare. Le persone soffrono in tanti modi, non sempre contemplati dai medici. La sofferenza è un concetto ben più ampio della malattia. Dunque, seguendo il ragionamento dei giudici, si potrebbe optare per l’eutanasia qualunque sia l’origine della sofferenza. Eppure il dolore giunge in diversi momenti della vita, si realizza in modi differenti, assume diverse dimensioni. La sofferenza è inseparabile dall’esistenza terrena dell’uomo.

Un recente sondaggio realizzato in Canada – dove nel 2021 è stata approvata una legge che prevede il suicidio assistito anche per persone che non presentano una malattia terminale – ha osservato che un terzo della popolazione è favorevole al suicidio assistito anche per i senzatetto e i poveri. Basta soffrire per qualsiasi ragione per poter decidere di porre termine alla propria vita. Una deriva pericolosa visto che la sofferenza morale – così vasta e multiforme – non è certo minore di quella fisica.

Una vecchia Esortazione Apostolica di San Giovanni Paolo IISalvifici Doloris – tratta proprio del tema della sofferenza umana. Essa si apre citando la Lettera ai Colossesi. «Completo nella mia carne – dice l’apostolo Paolo spiegando il valore salvifico della sofferenza – quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa». Non si deve certo pensare in senso riduttivo a questo termine, infatti, come spiega la Lumen Gentium, alla Chiesa «appartengono tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza».

La sofferenza sembra appartenere alla trascendenza dell’uomo: – spiega Papa Wojtyla nel documento – essa è uno di quei punti, nei quali l’uomo viene in un certo senso destinato a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso”. Il Papa venuto dall’est si addentra nel mistero. “Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo – si legge nell’Esortazione – hanno davanti agli occhi il mistero pasquale della Croce e della risurrezione, nel quale Cristo discende sino agli ultimi confini della debolezza e dell’impotenza umana: egli, infatti, muore inchiodato sulla Croce. Ma se al tempo stesso in questa debolezza si compie la sua elevazione, confermata con la forza della risurrezione, ciò significa che le debolezze di tutte le sofferenze umane possono essere permeate dalla stessa potenza di Dio, quale si è manifestata nella Croce di Cristo. In questa concezione soffrire significa diventare particolarmente aperti all’opera delle forze salvifiche di Dio. In lui Dio ha confermato di voler agire specialmente per mezzo della sofferenza, che è la debolezza e lo spogliamento dell’uomo, e di voler proprio in questa debolezza e in questo spogliamento manifestare la sua potenza”.

Ecco allora che le tragiche vite di Indy Gregory, Charlie Gard, Alfie Evans, Archie Battersbee e i tanti piccoli crocifissi ci fanno entrare nel mistero della sofferenza. Innocenti che portano su di loro un peccato ed una sofferenza di cui non hanno colpa. Testimoni della croce e della risurrezione che con le loro vite convertono i cuori, anche i più induriti. Perché invitano tutti gli uomini e le donne ad aprirsi all’amore gratuito con un semplice gesto: mettere la spalla sotto la croce di chi soffre.