Editoriale

L’importanza di chiamarsi Francesco

La missione nel nome. Chiamarsi Francesco è già un programma per il pontificato.  “Jorge Mario Bergoglio non ha scelto il nome del santo di Assisi per arruffianarsi il moderno ecologismo“, ha evidenziato il filosofo Massimo Cacciari. Francesco è segno di misericordia. Giovanni XXIII indicava nel perdono il cammino luminoso verso la misericordia del Signore. Descrivendo il perdono di Assisi come luminosa attrattiva del popolo cattolico all’udienza generale del 2 agosto 1961. Sulle orme del predecessore da lui canonizzato, papa Bergoglio definisce la misericordia come “architrave della Chiesa” in “Misericordiae Vultus“. La bolla di indizione del Giubileo straordinario della misericordia. Le figure di Roncalli e Bergoglio si possono unire per molti motivi. Il primo è quello anagrafico. Entrambi i cardinali sono stati eletti papa ad un’età avanzata. E hanno portato saggezza e profezia nelle due epoche storiche in cui sono stati chiamati a guidare la Chiesa cattolica. Il secondo motivo è il richiamo ad una chiesa ispirata al Vangelo. Alla sequela di Cristo, unico Maestro. L’obiettivo è il ritorno ad una dimensione evangelica delle prime comunità cristiane. Ma in grado di dialogare con il mondo contemporaneo. Inoltre, la riforma e l’aggiornamento delle strutture ecclesiastiche per entrambi i pontefici ha significato e significa nel caso di Francesco. Cioè il ritorno ad una dimensione di evangelizzazione delle genti e di coerenza nella fede da vivere come dono. E non come bene esclusivo. Il terzo aspetto è legato al nome. “Angelo Roncalli ha deciso di richiamarsi a Giovanni e ha ripreso il nome di un antipapa. Mentre Bergoglio è diventato Francesco. Ispirandosi alla povertà e alla forza del Poverello di Assisi“, osserva Luca Rolandi. Un santo moderno e capace di suscitare in ogni epoca una attrazione verso il bene e il buono. Ultimo aspetto è indicato nei due termini ‘buono’ e ‘misericordioso'”.Viene automatico dire Concilio Vaticano II e pensare al suo “ideatore” Giovanni XXIII, che di Jorge Mario Bergoglio è il maestro e l’ispiratore. Eppure l’eredità conciliare arriva al primo papa che ha scelto di chiamarsi come il Poverello di Assisi soprattutto attraverso la lezione e l’esempio dei suoi due più diretti predecessori. A diverso titolo protagonisti della stagione conciliare. Karol Wojtyla partecipò al Concilio con un contributo importante nell’elaborazione della costituzione “Gaudium et Spes“. La convinzione di Giovanni Paolo II era che la Chiesa attraverso il Concilio non ha voluto rinchiudersi in se stessa, riferirsi a sé sola. Ma al contrario ha voluto aprirsi più ampiamente.Uno dei principali problemi del lavoro dell’ex perito conciliare Joseph Ratzinger, negli anni da prefetto della Dottrina della fede, fu lo sforzo per giungere a una corretta comprensione dell’ecumenismo. Il sociologo e saggista Gianfranco Morra inserisce in questa linea di attuazione wojtyliana-ratzingeriana del Concilio il contributo personale di Francesco. Fin dall’inizio della sua missione Bergoglio non intende solo, come largamente richiesto, ripulire la Curia. Ma anche inventare una nuova pastorale. Capace di lasciarsi alle spalle l’infondata accusa di proselitismo. E accetta gli uomini per quel che sono, non li giudica. Ma li consola e conforta.

 

Giacomo Galeazzi

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