Isaia profeta ha accompagnato, in Avvento, il cammino della Chiesa verso Betlemme. Profeta sognatore, profeta di pace: “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione” (2,4). Ma anche la notte di Natale ci è dato di ascoltare la sua profezia: “Perchè ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, dati in pasto al fuoco” (9,4).
Sembrano parole sconfitte, quando vedi le immagini – sempre grigie, sempre uguali – che giungono da Gaza. Eppure proprio questa è la speranza certa del Natale: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle il potere e il suo nome sarà Principe della pace” (9,5).
La nascita di quel Bambino avviene, del resto, in un contesto per nulla tranquillo: “Il censimento di tutta la terra” (Lc 2,1) con il quale Cesare Augusto vuole affermare il suo potere; il viaggio da Nazaret a Betlemme di Maria incinta e la mancanza di posto nell’alloggio; la furia invidiosa di Erode, che teme il Re bambino, e fa strage degli innocenti… Oggi come allora sono i bambini le prime vittime della guerra, e nei bambini è di nuovo crocifisso Gesù: “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40). E, come ci ricorda Gideon Levy in un editoriale su Haaretz, “ogni 15 minuti un bambino viene ucciso a Gaza”.
La speranza certa del Natale, allora, diventa credibile soltanto quando donne e uomini di pace e di preghiera compiono i gesti artigianali della pace ai quali il Papa spesso ci richiama. Penso ai volontari della Operazione Colomba, che in Cisgiordania tentano in ogni modo di difendere, senza violenza, i diritti dei palestinesi; e penso al migliaio di cristiani, cattolici e ortodossi, che a Gaza City accolgono nelle loro chiese vecchi e bambini.
E penso a un amico carissimo, dal quale molto ho imparato, Massimo Toschi, morto alcuni giorni fa. Nel 2003, al cuore della seconda Intifada, aveva inventato un progetto che sembrava impossibile: far curare bambini palestinesi malati gravi negli ospedali israeliani, meglio attrezzati di quelli dei Territori; ha coinvolto nel suo sogno la Regione Toscana, il Centro Peres per la pace e Save the Children e “ha così salvato diecimila bambini”, secondo la testimonianza di Michele Zanzucchi; e salvando i bambini ha “guarito” il cuore diffidente dei loro genitori, israeliani e palestinesi. Pochi anni fa, sulla sua carrozzina di disabile, è andato a Gaza e Sderot e ha poi organizzato due settimane di campo estivo per 50 bambini di Gaza, assieme a 50 bambini di Sderot.
Ora tutto sembra sepolto dall’odio e dalle macerie. Ma Natale ci chiede di continuare a immaginare l’impossibile. E allora mi piace immaginare che le statuine del nostro presepe rappresentino i tanti artigiani di pace che vanno a Betlemme per chiedere al Bambino la liberazione di tutti gli ostaggi e la fine della guerra: pastori e magi, Simeone e Anna, il pastorello incantato che guarda da lontano; ma anche Francesco di Assisi (che ha inventato il presepe per “vedere con gli occhi la povertà di Betlemme”!), Massimo, gli amici della Operazione Colomba e il Patriarca Pizzaballa…
Se penso a un presepe così, mi torna la speranza, perché “la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,5). E’ questo il miracolo del Natale, ed è questo il mio augurio: che la morte si trasformi in vita, proprio come quella mangiatoia è diventata la casa del Dio della pace. A noi è chiesto solo di invocarlo; a me è caro farlo anche con le parole di Padre Turoldo: “vieni, figlio della pace, noi ignoriamo cosa sia la pace, e dunque vieni sempre, Signore…Noi siamo tutti lontani, smarriti, né sappiamo chi siamo, cosa vogliamo. Vieni, Signore. Vieni sempre, Signore”.
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