La denuncia del rapporto Svimez: crisi economica da pandemia al sud ancora più grave

Il Rapporto Svimez 2020 ci consegna un quadro socio-economico del Mezzogiorno, reso ancor più fragile dalla pandemia, che “visto da Sud” è la conferma di una condizione di marginalità sociale, economica, politica divenuta purtroppo strutturale e senza un’idea di sviluppo concreta.

Basti pensare ad eventi altrettanto “pandemici” quanto il coronavirus, come lo spopolamento dei luoghi, le carenze del sistema sanitario, la dilagante corruzione e criminalità, l’irrilevanza del tessuto imprenditoriale, il dilagare della povertà, l’inquinamento ambientale, per capire come l’analisi dello Svimez sia corretta ma tutto sommato scontata.

Certo, la pandemia ha accresciuto le difficoltà di attività̀ e pezzi di occupazione in posizione marginale (sommerso, nero, irregolari), ha ridotto sensibilmente la capacità di spesa delle persone e delle famiglie, ha contribuito all’isolamento di vasti territori meridionali, che hanno una scarsa connessione con i mercati e dipendono molto dalla spesa pubblica.

Infatti, pur se è sempre stata una delle piaghe principali, il lavoro sommerso nel tempo ha calmierato il fronte della povertà (comunque elevata), la sua mancanza ha privato tante famiglie del “pane quotidiano”.

La realtà di oggi in Sicilia è che alla già ampia fetta di poveri assoluti e relativi – 26% (fonte ISTAT) – si stanno aggiungendo una marea di nuovi poveri, provenienti da settori economici disparati, ma tutti accomunati da forme di lavoro precario o sommerso.

Il futuro, visto dal tunnel “Covid-19” in cui siamo finiti, sembra un baratro senza fine e rischiano di caderci dentro proprio coloro che stavano già sull’orlo prima del blocco delle attività, cioè quella fascia di popolazione in seria difficoltà economica.

In questo senso, le Regioni meridionali sono diventati territori di frontiera, incapaci di contrastare la pandemia, inadatti a fronteggiare i fenomeni già gravi di disgregazione e, per contro, assaliti dal duplice fenomeno migratorio, quello di rientro di tanti cittadini da altre parti d’Italia e d’Europa e quello dei migranti provenienti dal mare Mediterraneo.

Nonostante il Mezzogiorno sia stato e sia la culla di grandi tesori naturalistici, culturali, sociali, si trova purtroppo vittima di sé stesso, ancor prima che vittima di politiche predatorie che l’hanno visto da sempre in un tentativo di agganciarsi all’Italia e all’Europa, di salire sul treno dello sviluppo, di avere finalmente infrastrutture efficienti.

Ecco perché da tempo affermo che al Sud lo sviluppo sia piuttosto legato al cambiamento culturale che alla capacità imprenditiva del capitale umano.

Perché il Sud avrebbe tutto per costruire un futuro virtuoso, ma non riesce a farlo per via delle lobbies che lo hanno “spremuto” fino a soffocarlo e che non permettono di liberare le energie positive che ancora ci sono, non favorendo anche il rientro di chi è andato via a causa delle scelte scellerate.

Il rapporto Svimez ci rivela come nel solo 2018 si sono cancellati dal Mezzogiorno oltre 138mila residenti, di cui 20 mila hanno scelto un paese estero come residenza, una quota decisamente più elevata che in passato, come più elevata risulta la quota dei laureati, un terzo del totale. Una parte di questi, come espresso prima, stanno rientrando a causa della pandemia, ma senza che la loro terra possa accoglierli e valorizzarli.

Si tratta, infatti, di decine di migliaia (sembra circa 50.000) lavoratori, soprattutto giovani, che sono rientrati al Sud grazie alla possibilità del lavoro in smart working o telelavoro.  E questo potrebbe essere solo l’inizio, perché sono circa 2 milioni gli occupati meridionali a lavorare per aziende del Centro-Nord e tra quelle che hanno fatto ricorso totalmente o per l’80% allo smart working nei primi tre mesi del 2020, circa il 3% dei dipendenti ha scelto di lavorare al Sud. All’interno del tema smart working si è creato, pertanto, un focus al quale è stato dato il nome di south working, che è diventato un’occasione di confronto per cercare soluzioni, non solo alternative al classico lavoro subordinato, e per garantirne la socialità e l’adeguatezza di tempi e luoghi, ma anche alla fuga di cervelli dal Sud verso il Centro-Nord e l’estero e con tanti vantaggi personali e sociali, fra cui il minor costo della vita e la maggior possibilità di trovare abitazioni a basso costo.

È un escamotage nato “grazie” alla pandemia, ma non è certo che possa consolidarsi con soddisfazione delle aziende. Certo è che il rapporto SVIMEZ stima una riduzione dell’occupazione del -4,5% nei primi tre trimestri del 2020, il triplo rispetto al Centro-nord. E si attende una perdita di circa 280mila posti di lavoro al Sud. La crescita congiunturale dell’occupazione era già modesta, la ricerca di lavoro in diminuzione e l’inattività̀ in aumento. Da questo punto di vista, la crisi seguita alla pandemia è un acceleratore di quei processi di ingiustizia sociale in atto ormai da molti anni che ampliano le distanze tra cittadini e territori. La crisi si è scaricata quasi interamente sulle fasce più fragili dei lavoratori. Cassa integrazione e blocco dei licenziamenti, nonostante l’ampliamento a settori ed imprese non coperte, hanno costituito un argine allo tsunami della crisi per i lavoratori tutelati, ma hanno inevitabilmente incanalato l’onda nociva dei licenziamenti, dei mancati rinnovi dei contratti a termine, e delle mancate assunzioni verso le componenti più precarie e verso i territori più deboli dove tali tipologie sono più diffuse. I posti di lavoro persi sono composti per due terzi da contratti a termine (non rinnovati al momento della scadenza e/o non attivati) e per la restante parte da lavoratori autonomi

«Il south working potrebbe rivelarsi un’interessante opportunità per interrompere i processi di deaccumulazione di capitale umano qualificato iniziati da un ventennio (circa un milione di giovani ha lasciato il Mezzogiorno senza tornarci) e che stanno irreversibilmente compromettendo lo sviluppo delle aree meridionali e di tutte le zone periferiche del Paese. Per realizzare questa nuova opportunità è tuttavia indispensabile costruire intorno a essa una politica di attrazione di competenze con un pacchetto di interventi concentrato su quattro cluster: incentivi di tipo fiscale e contributivo; creazione di spazi di coworking; investimenti sull’offerta di servizi alle famiglie (asili nido, tempo pieno, servizi sanitari); infrastrutture digitali diffuse in grado di colmare il gap Nord/Sud e tra aree urbane e periferiche» – dice Luca Bianchi, direttore dello Svimez .

La lettura che lo Svimez fa del “Sud” alla luce degli effetti del Coronavirus è impietosa, perché all’impreparazione sanitaria si aggiunge un’improvvisazione politica ed una fragilità della struttura produttiva.

Se il resto d‘Italia riparte di slancio, proiettato verso uno sviluppo “drogato” dagli interessi di multinazionali e lobbies politiche, che hanno massimizzato il profitto a discapito della salute pubblica, il “dopo”, ovvero l’alba del ritorno alla normalità, al Sud fa paura solo a pensarci con il rischio di trovarsi il doppio dei già numerosi poveri.

Un rischio che ogni giorno di più diventa realtà, perché tante micro imprese, professionisti e partite Iva, lavoratori precari e stagionali, badanti, ambulanti, hanno dovuto fermare la loro attività e non ripartiranno più, anche per l’inadeguatezza delle misure di aiuto a fronte di costi di gestione delle dette attività molto alti.

L’unica risposta che viene fornita dalla politica nazionale e regionale, è l’estensione a tutti degli strumenti assistenziali, in primis il Reddito di cittadinanza, che, nel bene e nel male, sta costituendo un forte ammortizzatore sociale.

Non c’è una proposta di rilancio, una forma di sostegno ancorata ad una ripartenza produttiva, la scelta ancora una volta di rinviare alle generazioni future il peso dell’incapacità politica ed economica.

Le grandi opere infrastrutturali, il recupero di luoghi paesaggistici di grande pregio, sono al palo, bloccate dal coacervo di interessi della malapolitica, della malaburocrazia e delle lobbies di affari e mafia. Anche qui, non si fanno scelte decise, quelle stesse che hanno permesso la ricostruzione del ponte di Genova in pochissimo tempo. Si preferisce l’attendismo, l’indolenza, il pietismo, che tuttavia nascondono interessi ben precisi, come quelli che stanno concentrando i terreni agricoli più fertili nelle mani di pochi imprenditori, alcuni dei quali stanno già abbandonando quei terreni per affari più convenienti.

Il rapporto apre uno scenario nuovo, sarebbe il cosiddetto PIANO SUD, un disegno ambizioso che richiederà̀ un impegno pluriennale non solo di risorse ma soprattutto di azioni di riforma di una macchina amministrativa costruita negli anni intorno alle politiche strutturali spesso pleonastica nelle procedure e debole nel coordinamento tra i troppi soggetti attuatori.

Certo, se il Piano Sud dovesse “perdere” la battaglia contro le esigenze di parcellizzazione delle strategie e degli interventi da parte dei singoli territori, sarebbe un’ulteriore – forse l’ultima – occasione sprecata.

Basti guardare – perché a me più vicina – alla “programmazione” che la Regione siciliana ha fatto per i fondi del “recovery fund”: c’è il “famigerato” Ponte sullo Stretto, c’è un aeroporto intercontinentale «da ubicarsi fra Barcellona Pozzo di Gotto e Milazzo», c’è la “velocizzazione dell’asse ferroviario Palermo-Messina-Catania”, c’è il “Centro di Tecnologie e Astrofisica spaziale del Sud” nel Parco delle Madonie, c’è un «porto hub del Mediterraneo» immaginato a Marsala, insieme ad un centro di produzione cinematografica nell’area dell’ex Fiat di Termini, c’è un “centro fieristico e spazio per concerti” sia nell’ex Siace di Fiumefreddo sia nel centro commerciale di Bicocca, un centro polivalente teatrale a San Giovanni la Punta (CT), un “Centro internazionale di studi avanzati su salute e ambiente” nell’ex complesso Roosevelt di Palermo, un’ambiziosa «anastilosi virtuale» delle colonne del Tempio di Selinunte. Insomma, nell’incapacità di progettare lo sviluppo, si sono tirati fuori antichi “cavalli di battaglia” e “sogni nel cassetto”.

Tutto questo, mentre la spesa per utilizzo dei fondi comunitari del settennio 2014-2020 è molto indietro. Lo stesso rapporto SVIMEZ segnala che c’è stato un miglioramento dell’avanzamento finanziario dei Programmi, ma la spesa non supera il 40% e persiste una forte disomogeneità̀ tra Programmi. In termini di pagamenti a valere sul FESR appaiono in maggiore ritardo i POR delle Marche, dell’Abruzzo, della Calabria, sul FSE invece appaiono particolarmente in ritardo i programmi di Sicilia, Campania e Abruzzo. I limiti dell’attuazione investono, oltre alle Regioni, anche molte Amministrazioni centrali. In termini di pagamenti sul totale della spesa programmata il PON Legalità̀ è fermo ad agosto 2020 al 18,1%, mentre il PON Inclusione alla stessa data è fermo al 16,2%.

Ciò dimostra, oltre all’incapacità politica e amministrativa, la necessità di un rafforzamento delle strutture tecniche a supporto dei processi di programmazione e attuazione delle politiche comunitarie che hanno ricaduta nel Sud Italia, soprattutto in vista delle risorse del nuovo ciclo di programmazione 2021-2027 e degli investimenti aggiuntivi di Next Generation EU alla ricostruzione del Paese post-pandemia.

Solo da una «visione» d’insieme di questo tipo – conclude il rapporto – centrata sulle due questioni dell’interdipendenza tra territori e della connotazione nazionale che ormai ha assunto la coesione territoriale nel nostro Paese, potrà̀ seguire un’effettiva valorizzazione del contributo alla ripartenza del potenziale presente nelle regioni del Sud e negli altri territori in ritardo di sviluppo dove più forti sono i ritardi nella dotazione di infrastrutture e nell’offerta di servizi da colmare; solo così la crescita nazionale potrà̀ andare di pari passo con l’equità sociale e territoriale.

Si può ancora sperare, insomma, che il Sud si rilanci oltre la pandemia, ma credo che per farlo occorra una seria riforma delle coscienze, della classe politica, delle infrastrutture, tutto ciò che consenta alle menti e alle braccia che il Sud genera di investirsi sul proprio territorio, rianimare le Comunità, pensare ad aggregazioni di risorse umane ed economiche volte al benessere di tutti e di ciascuno.

Da questa “porta stretta” passa il “treno” dello sviluppo, è il benessere degli individui e delle comunità l’humus essenziale per “restare al Sud”, per fare sì che le enormi risorse economiche disponibili sedimentino strutture stabili e durature.