Cosa c’è dietro la decisione della Turchia di espellere i dieci ambasciatori

Il contrordine è arrivato esattamente come era arrivato l’ordine: inaspettato. Non saranno più espulsi gli ambasciatori dei dieci paesi occidentali messi sulla lista nera dal governo turco di Recep Tayyp Erdogan. Tutto come prima, insomma. Ma è proprio questo il problema: tutto come prima. Il ritorno allo status quo ante, infatti, significa il ritorno ai problemi irrisolti che si sono accumulati negli anni, concrezioni calcaree che incrostano il meccanismo delle sane relazioni internazionali e ne impediscono il funzionamento. Niente di peggio, nel campo della politica tra gli stati, di una situazione sospesa, perché tutto può mettersi in moto all’improvviso, e quando capita di rado capita per il meglio.

Dietro la decisione delle espulsioni si sono andate a sommare due spinte diverse, una del recente passato e una del futuro prossimo. La prima è il fallimento praticamente definitivo registrato la scorsa estate nei lunghi, estenuanti ed infruttuosi negoziati per l’ammissione della Turchia nell’Ue. Un progetto che si trascina, si noti, dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso ma che rispecchia un “Drang nach Westen” ormai centenario, e che ha avuto occasionali sponsor del peso di Sarkozy e Tony Blair. Difficilmente la spinta verso Bruxelles verrà a mancare, nei prossimi anni, ma si caricherà ulteriormente di un amaro spirito di rivalsa che renderà le cose sempre più difficili. La seconda spinta è costituita dalle elezioni politiche previste tra due anni. Domattina, più o meno.

Ecco allora che Erdogan coglie al balzo la palla del risentimento nazionale antioccidentale ed antieuropeo per dare una scossa di sovranismo al suo elettorato di riferimento. Tutto consenso che torna, ora che sembrava un po’ scemare. E qui si scopre il nocciolo della questione, che non sono le elezioni, non è nemmeno la battuta d’arresto con l’Europa, ma qualcosa che tiene insieme tutti questi elementi. Si tratta della questione dei migranti.

Nel 2016 gli europei di fatto pagarono una cifra considerevole, circa un miliardo di dollari all’anno, alla Turchia perché tenesse a freno i tre milioni di migranti per lo più siriani che premevano attraverso il suo territorio per risalire su, lungo la rotta balcanica, verso l’opulenza del Vecchio Continente. Ha funzionato, anche se spesso a dispetto dei diritti e della dignità umana (la qual cosa non è certo una medaglia per noialtri che viviamo dalla parte privilegiata del confine). Solo che da quest’estate hanno iniziato ad arrivare, via Iran, gli afghani: sono 600.000, e sommati agli altri fanno un bel problema.

Il governo si è trovato così sotto l’attacco – parrà paradossale, ma è quello che è successo – dell’opposizione democratica ma non per i suoi modi spicci, quanto semmai per la sua poca determinazione nell’usare la forza contro gli ospiti indesiderati. C’è adesso, tra gli avversari di Erdogan, chi promette di fare piazza pulita in poche ore se, nel 2023, finalmente il Sultano dovesse vedersi mostrata la porta. Certo, una vittoria elettorale degli oppositori di Erdogan sarebbe musica per le orecchie di più di una cancelleria, ma se questa svolta dovesse giungere grazie ad una nuova ondata di sovranismo è difficile immaginare che i buoni rapporti con l’Occidente possano riprendere ed essere durevoli, anche perché l’ingresso nell’Unione Europea è qualcosa che difficilmente andrebbe giù non solo a tanti europei, ma anche a tanti turchi. Insomma, in Turchia le vie d’uscita al momento sono poche e sono tutte chiuse. Attendiamoci tempi difficili. È il destino dei paesi costretti a vivere, loro malgrado o per loro fortuna, su due continenti.