Afghanistan: il disastro che segna la fine dell’illusione che ci voleva padroni del mondo

Per decenni gli strateghi della Casa Bianca hanno avuto un incubo: l’overstretching. Vale a dire: dover controllare una fetta di mondo troppo vasta per il numero delle forze armate a loro disposizione. Per questo, a cominciare da Clinton, gli Usa si sono ritirati militarmente un po’ da ovunque, a cominciare dall’Europa. Poi, siccome era un errore, hanno pensato di rimediarvi aggiungendone un secondo: con la scusa della guerra al terrorismo sono andati in Afghanistan e poi in Iraq.

Se fossimo americani ora non ce la prenderemmo con Biden, e persino nemmeno con Trump che pure è l’autore di questa ritirata da Kabul che segna il punto più basso della politica estera statunitense dai tempi del Vietnam. Ce la prenderemmo con quella pletora di liberal convertiti al neoconservatorismo, teocon e pensatori di destra e sinistra di gran moda che hanno fatto da mosche cocchiere – saputelli e sostanzialmente ignoranti dell’abc della politica internazionale – alle grandi democrazie occidentali. Portandole inevitabilmente al fallimento.

Perché questo disastro segna proprio la fine dell’illusione che ci voleva padroni assoluti del mondo e delle sue genti. Tutte disposte a divenire, sotto il nostro insegnamento, democratiche: dall’Iraq fino, per l’appunto, all’Afghanistan. Ora, la democrazia è il migliore dei mondi possibili ed è giusto farla prosperare ovunque, ma ha un difetto: non la si può esportare sulla punta delle baionette. Altrimenti non è democrazia. Ecco perché oggi dall’Afghanistan ci si ritira: in fondo ci siamo comportati come gli altri che da quelle parti ci hanno rimesso le penne. Inglesi e sovietici, innanzitutto, e non è roba da poco.

Un peccato di hybris, quello dell’Occidente: è chiaro come il sole. Ma il rincrescimento sale se si considera una cosa, e cioè che l’Afghanistan non è ciò che noi crediamo sia, vale a dire un paese piccolo di cui in fondo si sa poco, a noi alieno e ben poco familiare. Perché, al di là del suo essere la tessera che impedisce ad almeno tre imperi di sbattere la testa l’uno contro l’altro come tre capri di montagna in pieno estro, le sue radici sono le nostre. Per lo meno in buona parte. Sì, perché Alessandro sulla via dell’Indo lì come altrove da quelle parti si era fermato e, da buon inventore della geopolitica di cui noi siamo pallidi epigoni, aveva capito che solo chi tiene la Bactria, o l’Afghanistan, può controllare il luogo da cui si diramano tutte le vie e tutti i corsi d’acqua dell’Asia. Solo che lui, il più grande uomo d’arme della Storia, sapeva benissimo che la forza degli eserciti non tutto può fare. Per conquistare può anche andar bene; ma per restare ci vuole l’inculturazione. Non a caso faceva sposare ai suoi le donne del luogo, dava inizio a stirpi miste e di questo meticciato faceva il cardine centrale del suo futuro impero che sognava universale. Soprattutto, però, fondava città. Tutte col suo nome. Nell’attuale Afghanistan ne creò ben cinque, ed una gli rende ancora omaggio con la toponomastica. Si tratta di Kandahar (da Iskandar, a sua volta da Alexandria – miracoli della metatesi quantitativa). È caduta anch’essa in mani talebane, chissà se adesso arriveranno da noi lettere come quelle che spinsero Nafas a tornare a casa dal Canada. Alla morte di Alessandro il suo progetto si sarebbe spezzato politicamente, non culturalmente. L’ellenismo successivo è il più grande evento della nostra storia prima dell’avvento del cristianesimo. Inoltre, secondo Toynbee, dei grandi tronconi in cui si ruppe l’impero del Macedone l’ultimo, il più estremo, quello che proprio controbilanciava la Bactria e le cinque Alessandrie a ridosso dell’Oxus, era quello romano. Insomma: Afghanistan provincia di Roma. O Roma provincia di Kandahar: da un certo punto di vista fa poca differenza.

Quello che conta è invece che, in vent’anni, né noi né i nostri alleati abbiano fondato una città, né organizzato un matrimonio misto, né generato inculturazione. È chiaro, allora, che il nostro modo di vivere e la nostra democrazia non potessero prendere radici.
Così la Storia riprende il suo corso mai interrotto, sempre diverso e sempre uguale, e a noi tocca contare i nostri morti in Afghanistan (sono ben 53) e le risorse sprecate (miliardi di euro) guardando con rincrescimento a quel che è, e che invece poteva essere ben diverso. Perché gli eventi, si sa, sono frutto di una serie di concause unite in uno gnommero. L’Afghanistan non fa eccezione. Avremmo dovuto saperlo, e invece abbiamo voluto dimenticarlo, perché tanto noi eravamo, in una sorda e stupida palingenesi, la Fine della Storia.