Un porcile come stanza, condizioni igieniche a dir poco carenti, ore e ore di lavoro sotto il sole della Calabria per una paga irrisoria. Erano queste le condizioni di vita di un gruppo di immigrati costretti a lavorare senza attrezzature adeguate e privati dei loro stessi documenti come manodopera “a basso costo”.
A finire in manette 49 persone, denunciate dalla Guardia di Finanza di Montegiordano, Cosenza, grazie a complesse indagini che hanno portato alla luce un vero e proprio sistema di caporalato: un uomo di origini pakistane, ritenuto il punto di riferimento dell’organizzazione criminale, reclutava giovani immigrati per conto di imprenditori locali che necessitavano di braccia in più per lavori di tipo agricolo.
Una volta scelti, i lavoratori venivano alloggiati in porcili e stalle adibiti a dormitori e i loro documenti venivano sequestrati e custoditi in armadietti di metallo, ai quali poteva accedere solamente il pakistano. L’uomo, secondo quanto riportato dai militari, avrebbe guadagnato più di 250 mila euro sfruttando gli immigrati e buona parte di questi soldi veniva destinata alle casse della criminalità organizzata, mentre solo una piccola parte era trasferita in Pakistan attraverso servizi di money transfer.
La notizia arriva a pochi giorni dalla votazione in Senato sul disegno di legge contro il caporalato, una norma che di fatto riscrive il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro e prevede la responsabilità diretta del datore di lavoro con una pena fino a sei anni di carcere per chi sfrutta i lavoratori agricoli.
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