Un anno di Von der Leyen: il crack del virus sul deal europeo

Dodici mesi fa l'inizio del dopo-Juncker. Un'Europa pensata su una strategia a medio-lungo termine inevitabilmente condizionata da una variabile di nome Covid

Europa

Dopo dodici mesi di attività concreta forse sarebbe stato giusto fare un primo sunto sull’Europa targata Von der Leyen. Inutile dire che l’irruzione del coronavirus abbia sparigliato le carte sul tavolo di Bruxelles, costringendo la Commissione europea a rivedere in buona parte obiettivi e strategie. Senza forse stravolgere troppo un’agenda estremamente densa di progetti e programmi a lungo termine, improntati sulle colonne della sostenibilità e della futuribilità. Un “deal” rigorosamente green e l’allargamento della visione europea alle nuove generazioni. Due aspetti sostanziali che, forse, la crisi economica portata dal coronavirus può aver costretto a rivedere nella sostanza ma non nella forma. Con la consapevolezza che sugli strumenti di assistenza ai Paesi membri si gioca forse la partita più importante dei prossimi mesi. Interris.it ne ha parlato con Nicoletta Pirozzi, responsabile delle relazioni istituzionali; Responsabile del programma “Ue, politica e istituzioni” dell’Istituto Affari internazionali.

 

Dottoressa Pirozzi, a un anno dall’insediamento della Commissione a guida Von der Leyen sarebbe ingeneroso tirare le prime somme senza considerare l’impatto del virus. Una variabile che ha rimescolato le carte al punto da costringere la presidente a riscrivere la sua agenda?
“Ovviamente la Commissione Von der Leyen si è trovata a gestire una crisi senza precedenti, prima di tipo sanitario e poi socio-economico. E che, di fatto, ha portato alla luce tutta una serie di problemi strutturali dell’Unione europea. Questo ha rimescolato le carte e costretto la Commissione a fare degli aggiustamenti a un programma molto ambizioso presentato a livello strategico. Problemi legati soprattutto alle profonde divisioni che l’Ue deve ancora fronteggiare negli interessi divergenti fra gli Stati membri. E queste sono venute alla luce sia nella prima fase della pandemia, quando molti Paesi hanno adottato misure unilaterali, come la chiusura dei confini o il blocco delle forniture sanitarie, sia nelle discussioni per il pacchetto del Recovery, con il veto di Ungheria e Polonia”.

Uno di quegli aspetti che evidenziano qualche frattura interna? Oppure ininfluente ai fini degli obiettivi originari dell’amministrazione Von der Leyen?
“Insieme a questo, la Von der Leyen si è trovata a fronteggiare la questione strutturale delle competenze. Un margine di manovra limitato quando parliamo di competenze sanitarie ma anche nella gestione dei confini dell’Ue. E, più in generale, la risposta alle crisi. Alcuni degli obiettivi più importanti che la Commissione si era posta sono rimasti in agenda. E potranno essere raggiunti in quello che resta della legislazione europea. In particolare tutto il pacchetto del Green Deal, in cui la presidente ha convogliato larga parte del piano strategico iniziale. Ed entrato in modo significativo nel pacchetto Next Generation EU. Il 37% delle risorse andranno all’attuazione del Green Deal. Gli obiettivi di Zero Emission entro il 2050 sono stati ribaditi e resi più ambiziosi”.

Rispetto alla Commissione Juncker, la caratura internazionale dell’Europa è cambiata?
“C’è tutta la discussione sull’Europa geopolitica, una delle cifre distintive della Commissione Von der Leyen. Sebbene la pandemia abbia colpito duramente l’Unione europea e, di conseguenza, reso anche più complicata la sua dimensione internazionale, da una parte vediamo che la posizione interna sulle questioni di autonomia strategica è ancora presente. Poi è intervenuto il cambio di presidenza negli Stati Uniti, che spinge a riconsiderare l’approccio dell’Unione ma dà delle prospettive incoraggianti su quello che la relazione transatlantica potrà fare a livello internazionale”.

Quanto incide, concretamente, l’impatto del virus?
“Quello che mi preoccupa di più è la parte relativa alle risorse, perché questa agenda che aveva grandi ambizioni anche dal punto di vista sociale, di integrazione a livello culturale, richiede un sostegno molto importante dal punto di vista finanziario. In questo momento abbiamo dei bilanci nazionali in gran parte impegnati per rispondere all’emergenza. Un pacchetto di ripresa ancora bloccato per i veti e con esso anche il bilancio 2021-2027 dell’Unione, sono state ridotte una serie di risorse – ad esempio nella difesa – fondamentali per il rilancio dell’Ue a livello internazionale. Sicuramente una serie di sfide molto superiori a quelle che si erano prospettate all’inizio ma un’agenda che resta ancora molto ambiziosa”.

Fra le bandiere della Commissione, un ambizioso programma sulla sostenibilità. Ritiene che la frenata economica dovuta alla pandemia possa costringere almeno in parte gli Stati membri a rallentare sul Green New Deal?
“Io credo che la questione della sostenibilità e della lotta al cambiamento climatico sia stato approcciato in maniera intelligente all’interno del pacchetto Next Generation EU. E ormai l’Unione ne ha fatto un po’ una bandiera quindi, da parte delle istituzioni, non credo ci sarà la volontà di rivedere al ribasso gli impegni presi. E’ vero però che molto dipenderà dagli Stati membri, che dovranno attuare le proposte di riforma. Alcuni sono stati più colpiti di altri dalla pandemia, altri avevano carenze strutturali pregresse, e faranno più fatica a dare attuazione. Credo ci sarà una differenziazione all’interno dell’Unione europea e credo ci sarà una certa flessibilità istituzionale sul come e quando questi obiettivi vengono raggiunti”.

La Commissione si è ritrovata a gestire, rispettivamente, la fase conclusiva e quella di definizione di due differenti processi. Da un lato l’uscita del Regno Unito, dall’altra l’allargamento ai Balcani. Ritiene che, alla lunga, estendere lo spettro europeo ai Paesi dell’Est, possa essere una strategia in grado di tamponare il distacco di Londra?
“L’obiettivo dell’allargamento ai Balcani non è mai stato una strategia di rimpiazzo alla Gran Bretagna, attore del tutto diverso che ha rappresentato un membro difficile ma importante. La questione sarà capire come saranno regolate le future relazioni che, a quattro anni dal referendum, non sono ancora state definite. Ovviamente questo è uno dei capitoli più spinosi per la Commissione e continuerà a esserlo: con il deal o il no deal, ci saranno da concludere una serie di accordi settoriali che terranno impegnate le istituzioni. Sul fronte dell’allargamento, si continuerà a cercare un compromesso che è ancora complicato per dare il via libera all’annessione dei nuovi Paesi membri. In particolare, ora, Albania e Macedonia del Nord. Questa è una strategia che non credo sarà impattata dalla Brexit nei suoi obiettivi generali. Quello che è derivato dalla trattativa è stata una nuova coesione fra gli Stati Ue e un irrigidimento sulle linee rosse sulla membership. Quello che si è imparato è che garantire delle eccezioni non è stata la strada più giusta. E credo che questo regolerà anche le relazioni con i futuri Paesi membri”.