La straordinaria coerenza cristiana e civile di Rosario Livatino

In occasione della peregrinatio della reliquia del Beato Livatino, un approfondimento sulla figura del magistrato che ha fatto della conoscenza della Sacra Scrittura il suo stile di vita

Il beato Rosario Livatino e la reliquia. Foto: Centro Studi Livatino

Giunge a Roma, nelle sedi delle massime istituzioni del Paese, dalla Camera al Senato, dalla Cassazione al Csm ma anche in parrocchie, università e scuole superiori, la reliquia (camicia intrisa di sangue) del beato Rosario Livatino, giovane magistrato ucciso dalla mafia nel 1990 in odio alla fede e alla giustizia.

In un momento particolarmente delicato per l’Italia, di crisi economica e di crisi internazionale, l’iniziativa assume una prospettiva di novità come quella che ha delineato il giudice con la sua stessa vita ovvero porre sempre la responsabilità al centro dell’impegno civico, lavorativo e cristiano. Un segno importante in una fase così difficile per l’Italia.

Il giovane magistrato diceva che la giustizia deve essere superata dalla carità. E vi dava seguito con comportamenti concreti atti a dimostrare vicinanza umana ai colpevoli che aveva fatto condannare, ai detenuti e alle vittime delle guerre di mafia.

All’obitorio, dove spesso si recava per le cosiddette ricognizioni cadaveriche, lo vedevano entrare e farsi prima di tutto il segno della croce, quindi raccogliersi in preghiera per qualche minuto e poi iniziare la sua attività. E, dinanzi a un uomo caduto in una guerra tra clan mafiosi, dice ad un sottufficiale dei carabinieri “di fronte alla morte chi ha fede prega, chi non ha fede tace”.

E’ la sua storia cristiana che lo porta ad avere il massimo rispetto della persona. Distingue con rigore tra reo e reato. Comprende bene che se il reato è una cosa comunque da condannare, il reo rimane sempre una creatura di Dio a cui non va mai sottratto il diritto e la dignità che gli appartengono e per il quale bisogna sforzarsi di trovare lo spazio morale della comprensione e della misericordia. Egli ricorda che se la bussola, l’orientamento del magistrato deve realizzarsi nell’applicazione puntuale della legge positiva è la ragione stessa della legge, la sua anima a dover essere rintracciata nella legge naturale che così si chiama proprio perché iscritta nella natura dell’uomo e in quanto tale deve costituire il suo riferimento ultimo. Mirabile è infatti la sua capacità di coniugare il rigore nell’applicazione della norma con – oltre all’umanità – il rispetto puntuale delle tutele difensive, anche per il criminale peggiore. Un esempio perciò non di scuola, non retorico ma molto concreto per l’attività quotidiana del magistrato di ogni tempo.

Scriveva, infatti, Rosario Livatino a proposito dell’immagine del magistrato: «L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività».

Non è difficile intendere come Livatino guardi alla sua professione di magistrato, incaricato di giudicare gli altri, come ad un ruolo quasi “divino” che, in questa luce, assume un significato ed un’importanza drammatici. È un uomo di ragione che scorge nella religione la guida morale e nella legge una misura di tutele e codici, entrambe necessarie per il buon funzionamento di una società.

In Livatino emerge sempre una straordinaria coerenza, cristiana e civile. Nè faceva mistero della sua profonda fede cristiana, sempre rigorosamente conciliata con la laicità della propria funzione. Celebre un passo di un suo scritto in tema di fede e diritto: «Il compito (…) del magistrato è quello di decidere; (…): una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. (…) Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia».

Non il magistrato che andava a messa la domenica e basta. Ma il rigoroso uomo di diritto che conosce la Scrittura, la fa diventare il suo stile di vita, il suo punto di riferimento. Conosce gli scritti dei Padri della Chiesa, conosce i testi del magistero, conosce ed applica i documenti del Concilio Vaticano II. La sua è una fede che costruisce realmente pezzo per pezzo. Questo fa di lui il cristiano credibile. Le sue agende sono intrise di atti di lode, di ringraziamento, di invocazione al Signore. Vive da cristiano e da buon servitore dello Stato. Non sono due momenti scissi uno dall’altro: per lui è un tutt’uno. La sua vita è fatta di testimonianza evangelica e di fedeltà alla Costituzione insieme.

Ai giovani va fatto capire quanto sia importante la visione di Livatino del mondo e delle cose. Primo fra tutte l’importanza che dà al radicare profondamente la vita sui valori forti dell’esistenza umana, come reclama nelle sue conferenze: l’uomo ha bisogno di valori autentici, intramontabili, siano essi cristiani legati al Vangelo o valori civili. E, radicando la sua vita nei valori, afferma anche la sua libertà. C’è in lui questa tensione continua a vivere la vita in pienezza, nella dedizione di sé agli altri, nel perseguimento del bene comune. Per arrivare al raggiungimento della propria felicità. Perché Livatino ha molto chiaro questo concetto: la vita è ricerca della felicità, ed essere felici vuol dire far felici gli altri, perché quando sono felici gli altri sono felice anche io.

I giovani vedono, in esempi come Livatino, un testimone. E comprendono bene che è il testimone di ogni tempo. Perché i giovani sono sempre attratti dal fascino dei testimoni radicali, quelli che testimoniano una vita spesa tutta per una visione realmente grandiosa, contrassegnata da scelte esistenziali forti.

Dunque un giovane egli stesso. Un giudice. Un cristiano. Non un santino a tutti i costi, non un essere eccezionale, un superuomo ma un giovane come mille altri. Innamorato della vita, della giustizia, della verità. Eroe per caso. La vicenda di un giudice e di un giovane uomo che si è sedimentata nella memoria e nel cuore del popolo, non solo italiano, come faro per le nuove generazioni desiderose di riscatto sociale e di libertà, come un simbolo per coloro che vivono nell’Italia di oggi sognandone una diversa. Perchè si può morire anche restando vivi, ed è la morte peggiore.