80 anni fa l’ingresso in seminario del santo che ha cambiato la storia del ventesimo secolo. Dal novembre 1942 Karol Wojtyla ha frequentato i corsi di formazione del seminario maggiore clandestino di Cracovia. L’istituto di formazione era diretto dal cardinale Adam Stefan Sapieha. Fu lui a ordinare sacerdote il 1° novembre 1946 il giovane Karol Wojtyla che trentadue anni dopo sarebbe diventato Papa Giovanni Paolo II.
Fu subito chiaro che dopo l’elezione al soglio di Pietro che Giovanni Paolo II sarebbe stato un Papa inconsueto. Inevitabilmente insolito rispetto ai suoi predecessori. E non soltanto, come un po’ tutti all’inizio pensavano, perché era il primo Pontefice non italiano dopo quattro secoli e mezzo. Il che, già di per sé, avrebbe comportato ovviamente dei cambiamenti sia sul piano istituzionale sia sul piano pastorale e culturale. Ma sarebbe stato un Papa diverso, soprattutto a motivo delle sue stesse origini, delle sue esperienze, della sua formazione umana e cristiana. Karol Wojtyla aveva vissuto in prima persona la Seconda guerra mondiale. E i due totalitarismi che ne avevano rappresentato le maggiori ideologie. E, in qualche modo, aveva vissuto da vicino anche la mostruosa vicenda della Shoah; tanti suoi amici e compagni di scuola erano scomparsi nei campi di sterminio nazisti. Naturale, perciò, che Giovanni Paolo II fosse portatore di un’altra visione del mondo e della storia. Così come fosse portatore di una concezione, altrettanto speciale, circa il modo di intendere il messaggio di Cristo, di viverlo, e di testimoniarlo nella quotidianità della vita.
Era nato in una Polonia libera, Karol. Aveva solo nove anni quando aveva perduto la mamma. Più tardi la ricorderà con una bellissima poesia. “Sulla tua bianca tomba/ sbocciano i fiori bianchi della vita./ Oh quanti anni sono già spariti/ senza di te….”.
Ma il padre, un ex ufficiale in pensione, era stato straordinario nel “supplire” a quella assenza. Poi, la scuola. Il teatro, grande passione, grande futuro. L’università. E, improvvisamente, il buio. Un buio spaventoso, totale. Quel giorno, 1° settembre del 1939, “non si cancellerà più dalla mia memoria”, aveva confessato. Karol era fuggito con il padre dai nazisti che avanzavano a Ovest. Ma, dopo aver percorso a piedi duecento chilometri, era stato costretto a invertire il cammino, perché a Est le truppe sovietiche stavano entrando in Polonia. Il giovane Wojtyla aveva vissuto sulla sua pelle il famigerato patto Molotov-Ribbentrop, Germania e Urss ancora insieme, per spartirsi quel Paese. Karol perciò era tornato a Cracovia. Ma, chiusa l’università, ridotto il
teatro alla clandestinità, aveva dovuto cercarsi un lavoro, in una cava di marmo. Per non finire in un campo di concentramento. Anche se aveva rischiato di andarci lo stesso, il giorno in cui il governatore generale aveva ordinato una retata in tutta la città.
Ancora una tragedia, ancora un lutto personale, la morte del padre. E da qui, forse, un’ulteriore spinta alla decisione che Karol comunque aveva già nel cuore, quella di farsi prete. Era finita la guerra, e lui, ricevuta l’ordinazione sacerdotale, era andato a Roma per un paio di anni a completare gli studi. E, quando era tornato, aveva trovato la sua patria soggiogata a un altro regime. Erano cambiate le divise, ma non l’ideologia persecutoria. Quando uscì allo scoperto Wojtyla aveva partecipato al Concilio, era diventato cardinale. Ma intanto, in Polonia, la situazione si era aggravata. E l’arcivescovo di Cracovia non aveva potuto più mantenere la linea di moderazione, e di interventi solo spirituali, che si era imposto. Quindi, era uscito allo scoperto, ogni giorno di più. Per difendere perseguitati e oppressi. Per far rispettare la libertà di culto. Per proteggere i movimenti giovanili. Per garantire la costruzione di nuove chiese, come quella di Nowa Huta. Per tutto questo, era diventato il nemico numero uno del regime. Controllato. Pedinato. Spiato. E minacciato fino all’ultimo, alla partenza per Roma, dove avrebbe partecipato al conclave per la successione di papa Luciani. Gli avevano già sequestrato il passaporto diplomatico, lasciandogli solo quello turistico. E uno dei segretari provinciali del partito comunista gli aveva detto: “Vada, vada, al suo ritorno faremo i conti…”.
L’arcivescovo sarebbe tornato, ma vestito di bianco. Dunque, un Papa che portava con sé, su di sé, il retaggio di una storia tragica. La vastità e la spietatezza del tentativo, prima del nazismo e poi del marxismo, di annientare l’uomo del XX secolo, privandolo della libertà, negandone la dignità, fino a espropriarlo della sua stessa anima. E da lì, appunto, era scaturita quella “scelta per l’uomo” – l’uomo in quanto immagine del suo Creatore, e quindi depositario di diritti inalienabili, inviolabili – che avrebbe marcato a fuoco la vita e la missione di Wojtyla. E poi, si diceva, era un Papa diverso, inevitabilmente diverso, perché portatore di un’altra religiosità, quella slava, segnata da un forte misticismo e, insieme, da un forte impegno sociale e culturale. E queste ricchezze spirituali – a rappresentare un’altra grande novità – entravano di diritto nella vita della Chiesa universale. Aprendola così a una pluralità di carismi, di modi di vivere la fede, di esperienze pastorali e missionarie.
Karol Wojtyla aveva avuto una formazione cristiana molto particolare. Sua madre aveva fatto in tempo a insegnargli a farsi il segno della croce, a pregare. Ma poi erano stati due uomini, due laici, a forgiarlo nella fede: il padre, naturalmente, e un personaggio straordinario, conosciuto per caso, Jan Tyranowski, sarto e catechista. Passavano gli anni e, attraverso molteplici esperienze, cementata in mezzo alle sofferenze e alle tragedie della Polonia, era maturata via via la vocazione sacerdotale, ma anch’essa in un modo che non era quello consueto, ordinario. Il regime comunista aveva chiuso i seminari e imposto ai vescovi di non accogliere più candidati. Così che Karol aveva cominciato a frequentare di nascosto i corsi di teologia. Continuava a lavorare alla cava, aiutava l’operaio che faceva saltare le mine, e poi a casa studiava da solo. E, sempre sostanzialmente da solo, aveva portato a termine il suo percorso spirituale, nell’ avvicinamento all’Assoluto. E anche dopo, negli anni successivi, il suo essere ministro di Dio, da sacerdote e da vescovo, aveva sempre avuto connotazioni singolari, speciali. Un andare avanti con dentro la forza della fede, senza paure, spesso controcorrente. Come quando c’era stato l’incontro con i giovani.
I giovani avevano subito percepito che quel prete non era come tanti altri; parlava di Dio, della religione, della Chiesa, ma anche dei loro problemi esistenziali: l’amore, il lavoro, il matrimonio. E Karol, a sua volta, aveva scoperto il valore profondo della giovinezza: che è un periodo di costruzione, di progettazione, ma anche di ricerca di risposte autentiche agli interrogativi sulla vita. Per cui, volendo mantenere costanti i fili di quel dialogo, e non lasciare i giovani in balia delle false lusinghe marxiste, si portava ragazzi e ragazze in campeggio. L’”apostolato dell’escursione”, lo aveva chiamato. Più avanti, da vescovo, aveva frequentato la grande “fucina” del Concilio Vaticano II. Aveva ascoltato. Aveva collaborato. Con un apporto sulle relazioni tra Chiesa e mondo (la Chiesa non intendeva imporre la verità, bensì contribuire, assieme agli uomini, alla costruzione del mondo). E sull’ateismo (doveva essere considerato non tanto come “negazione di Dio” quanto come “condizione interiore della persona umana“).
Ma soprattutto, dal Concilio, Wojtyla aveva imparato a ripensare la Chiesa in una dimensione più spirituale, più comunitaria, più carismatica, più collegiale, insomma, più popolo di Dio e meno gerarchia. In più – secondo l’esperienza polacca, caratterizzata da una tradizionale saldatura tra valori religiosi, morali e civili – una Chiesa presente nella società come “forza sociale”, ma senza tentazioni integralistiche. Una Chiesa meno clericale, e invece più aperta alla gente, in particolar modo ai giovani, e promotrice di una rinnovata religiosità popolare. Ed ecco che, quell’intreccio di profezia, di storia e di nuovi cammini da intraprendere, arrivava fin sulla cattedra di Pietro. Una “diversità” che oggi – nel 2019, e con un Papa come Francesco – forse colpirà poco, sembrerà meno suggestiva; ma che allora, sul finire del secolo scorso, era rivoluzionaria. Un Papa che parlava delle tragedie dell’umanità per esperienza diretta, e che demoliva le false “verità” imposte dalle ideologie, dalle politiche, dalle culture. E che guardando da un altro “osservatorio” indicava la via per come vivere radicalmente il Vangelo e per come essere una vera Chiesa al servizio degli uomini, ebbene un Papa così, un Papa giovane, cinquantotto anni, uomo di grande fede, di grande preghiera e anche di grande severità morale, poteva non mettere in crisi molte coscienze? E poteva non mettere paura a molti centri di potere?
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