Lucattini (Spi): “Baby gang, ragazzi ‘vuoti’ che cercano di sentirsi vivi”

L’intervista di Interris.it alla psichiatra e psicanalista Adelia Lucattini sul fenomeno delle gang giovanili nel nostro Paese

Da qualche tempo sulle cronache dei giornali appaiono con maggior frequenza notizie riguardo il fenomeno delle cosiddette baby gang, gruppi di adolescenti e/o giovani che commettono reati che vanno dalla rissa al disturbo della quiete pubblica, dagli atti vandalici al furto nella pubblica via o in un esercizio commerciale. Un’ampia panoramica sul mondo delle gang giovanili, le loro tipologie e le strutture più o meno fluide, la loro diffusione sul territorio nazionale, le cause e le concause di tipo psicologico e sociale alla base di questo fenomeno – che non sembra essere in crescita –, le misure di contrasto e la possibilità di reinserimento di questi ragazzi è stata fatta nel recentemente pubblicato dossier “Le gang giovanili in Italia” realizzato dal Centro di ricerca interuniversitario Transcrime in collaborazione con Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno e con il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia. A tale riguardo, Interris.it ha intervistato la psichiatra e psicanalista Adelia Lucattini, membro ordinario della Società  psicoanalitica italiana (Spi) e dell’Ipa.

L’intervista

Dottoressa, qual è linea che separa il gruppo adolescenziale dalla gang?

“I ragazzi vivono spontaneamente in gruppo perché cercano di rendersi autonomi dai genitori creandosi un’identità con i pari età, è tipico degli adolescenti avere un gruppo di riferimento con chi incontrano a scuola o fa sport insieme a loro. E’ sempre stato così fin dagli Cinquanta-Sessanta, si tratta di una fase ineludibile per crescere in modo sano. Le gang giovanili sono gruppi disfunzionali che hanno come scopo commettere atti vandalici, bullismo, aggressioni talvolta a sfondo razziale, abusi sessuali. Il loro obiettivo è l’azione violenta spesso criminale, chi si trova nel loro percorso diventa loro vittima”.

Quanti tipi di baby gang ci sono e come sono strutturate?

“Nello studio ‘Le gang giovanili in Italia’ di Transcrime, centro di ricerca interuniversitario sulla criminalità transnazionale, ne sono state schematizzate quattro tipologie, sia maschili che femminili: gruppi senza leader né una struttura definita impegnati in attività violente e devianti; quelle che sono filiazioni di realtà criminali italiane; quelle che si ispirano alle organizzazioni estere, senza però legami o affiliazioni; gang strutturate, con un leader, che non sono né affiliate né ispirate ad altri gruppi, e sono per lo più dedite a furti e taglieggi, composte da adolescenti minorenni”.

Quali sono le caratteristiche di questo fenomeno e che età hanno i componenti delle gang?
“E’ un fenomeno esclusivamente giovanile, i gruppi raggiungono massimo i 10 componenti che hanno tra i 15 e i 17 anni che commettono dei gesti dimostrativi di trasgressione, grave o meno, per eludere l’autorità degli adulti. L’adesione a un gruppo è uno snodo evolutivo e avviene infatti intorno a quell’età; alcuni ragazzi ne escono dissociandosi spontaneamente, altri perché interviene la famiglia o grazie ad un percorso di riabilitazione o psicoterapeutico. Dai 18 anni in poi si parla di delinquenza, i reati sono commessi a scopo remunerativo, come lo spaccio, e non dimostrativo”.

Qual è il trend del fenomeno?

“Dall’indagine il fenomeno non sembra in aumento, inoltre risulta esserci stato un totale stop delle attività delle gang durante la pandemia adesso. I dati della polizia fotografano il momento, in base ai reati, mentre quelli degli uffici di servizio sociale per minorenni si basano sui ragazzi presi in carico quindi possono riferirsi a gruppi non più attivi. In questo periodo interessa particolarmente, come se fossero stati accesi i riflettori, ma  non è un fenomeno nuovo ed è comunque abbastanza marginale. Il problema è che questi ragazzi sono pericolosi per sé stessi, oltre che per chi prendono di mira”.

Si può tracciare il “profilo” di un adolescente che appartiene a una baby gang?

“La baby gang non è un fenomeno ‘naturale’ e alcuni dei componenti sono ragazzi che presentano disturbi dell’umore, disturbi di personalità, depressione, sono borderline o bipolari – infatti l’esordio, la prima comparsa, di questi disturbi si manifesta tra i 15 e i 18 anni. Sono ragazzi vuoti, con un grande disagio psicologico, qualcuno con un’assenza di un’identità sociale e qualcun altro con un’assenza di appartenenza. Cercano qualcosa che li animi, che li faccia sentire vivi, e il gruppo gli dà questa possibilità. La mancanza di motivazioni, di progetti, di speranza, di ideali e di opportunità crea una sensazione di vuoto disorientante. E cosa, dal di dentro, dà loro la sensazione di vitalità, di esistere? La rabbia e l’aggressività. Non vogliono morire, vogliono sentirsi forti, per questo ad esempio fanno le risse: le stimolazione fisiche li fanno sentire vivi. Questo bisogno di provare qualcosa è associato alla confusione tra aggressività e violenza, e mentre distruggono cose fuori da sé distruggono le cose buone in sé stessi. Bisogna instillare in loro la speranza del futuro, farli uscire da un presente in cui non si sentono né di esistere né di contare. Deve esserci una ‘prevenzione’ a tappeto: gli psicologi dovrebbero aver accesso per fare i colloqui nelle scuole, nelle associazioni, tanto nei palazzoni agglomerati delle grandi periferie urbane come nei paesini”.

Da dove potrebbe avere origine questo vuoto, sul piano individuali e sul piano sociale?

“La maggior parte di questi ragazzi ha problemi personali o in famiglia, vivono in contesti di deprivazione economica e culturale dove mancano stimoli e alternative. Si trovano in situazioni di povertà materiale, etica e anche scolastica. La discontinuità e l’abbandono degli studi sono alti tra questi ragazzi, anche forse per via di una privazione culturale che li fa annoiare sui banchi di scuola. Così, per sentirsi qualcuno, cercano vessilli sotto i quali riconoscersi”.

Poco fa accennava a un discorso di prevenzione, andando ora dall’altro lato del ‘filo’, come si aiutano questi giovani a reinserirsi nella società?

“Per prima cosa vengono individuati e segnalati dai Carabinieri e dalle Questure; il reinserimento consiste nel 50% dei casi nella messa alla prova a casa o in comunità residenziali o semiresidenziali, dove sono occupati in attività gruppali, nell’altra metà dei casi entrano in centri di prima accoglienza o in gruppi per ragazzi che hanno avuto breakdown evolutivi, cioè un crollo psicologico grave, improvviso, che si verifica tipicamente nell’ adolescenza. Tanti di questi ragazzi non hanno conseguito la terza media, per cui li si aiuta a completare gli studi. Esistono inoltre percorsi professionalizzanti che immettono nel mondo del lavoro. Oltre a questo, serve il supporto psicologico a genitori e famiglie, ed è necessario l’aumento di centri sportivi e culturali per le attività extrascolastiche”.