Lontani ma vicini: Argentina e Italia, un’occasione per rinascere

A sei giorni dal ballottaggio che deciderà il futuro della Casa Rosada, con Giorgio Alliata di Montereale, presidente della Camera di Commercio italiana nella Repubblica d'Argentina, Interris.it fa il punto sulle relazioni economiche tra Buenos Aires e Roma: "Serve l'integrazione delle filiere produttive"

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Foto di Jeremias Ybañez su Unsplash

A volte, i legami più importanti hanno radici lontane tra loro. A rafforzarli è la consapevolezza che, in qualche modo, la distanza possa essere accorciata da una condivisione di idee e di cultura. Figurarsi se, a dare linfa, vi fosse un capitale umano forgiato da oltre un secolo e mezzo di emigrazione prima, integrazione e crescita generazionale poi. La storia recente dell’Argentina è legata a filo doppio con quella dell’Italia, i cui emigranti hanno toccato il Rio de la Plata compensando il desiderio di elevazione sociale proprio e del Paese ospitante, ridisegnato dagli esiti della violenta Guerra della triplice alleanza e bisognoso di forza lavoro. L’unità di intenti ha creato i presupposti per un rapporto transoceanico che, forse, non ha fin qui espresso il massimo dei suoi frutti.

Italia e Argentina, una storia nuova

Le elezioni in corso per la Casa Rosada saranno un banco di prova. Il 19 novembre, l’italo-argentino peronista Sergio Massa si giocherà con il rivale ultra-liberista, Javier Milei, la presidenza di un Paese ancora alle prese con l’ancora di una crisi pluridecennale. Per uscirne non basterà un nuovo corso politico ma servirà una lungimiranza fin qui frenata da una visione ristretta del potenziale economico. E, allo stesso modo, delle relazioni commerciali e sociali con partner lontani. Come spiegato a Interris.it da Giorgio Alliata di Montereale, presidente della Camera di Commercio italiana nella Repubblica di Argentina e dell’Eurocamera argentina, “se si riesce a contribuire a uno sviluppo economico sostenibile, questo aiuterebbe grosse fette della popolazione a emergere e progredire, entrando in una classe medio-bassa per poi uscirne e crescere ancora”.

Giorgio Alliata di Montereale
Giorgio Alliata di Montereale

Presidente, la vicinanza storica e culturale tra Italia e Argentina compensa ampiamente quella geografica. Questo, negli anni, ha favorito un rapporto transoceanico delle imprese?
“L’immigrazione italiana incomincia già dai primi anni del 1800. È un’immigrazione storica. La Camera che ho l’onore di presiedere è stata fondata nel 1884, quindi l’anno prossimo compiremo 140 anni di storia. Questo per dire che l’immigrazione italiana è parte integrante dell’Argentina. Non è separata come un’immigrazione recente. Se prendessimo il Registro delle imprese, vedremmo che la maggior parte, soprattutto quelle manifatturiere, sono di origine italiana”.

Qual è il loro peso economico interno?
“Il poter suddividere il Pil delle imprese strettamente di origine italiana è quasi impossibile perché, alla fin fine, sarebbe sostanzialmente il Pil stesso dell’Argentina. Chiaramente, nel corso di questi 150 anni, hanno continuato ad arrivare nuove imprese. I grandi gruppi internazionali, come Fiat-Stellantis, sono qui presenti. Poi ci sono una miriade di pmi che, nel tempo, sono cresciute fino a diventare medie e grandi imprese. La metalmeccanica è quasi esclusivamente italiana. Anche perché sono le competenze che noi abbiamo quasi sempre esportato”.

Di quale volume d’affari parliamo?
“Oggi l’intercambio con l’Italia è molto al di sotto delle potenzialità che potrebbe avere e questo per vari motivi. Da una parte, il governo attuale argentino è un po’ chiuso verso un’apertura esterna, anche per un sistema di politiche interne che, per sostenere una serie di sussidi, generano un deficit fiscale dal quale scaturisce una necessità di moneta dura. Ci sono per questo una serie di restrizioni per importazione ed esportazione che impediscono o riducono sostanzialmente il potenziale verso l’Europa”.

E per quel che riguarda l’Italia?
“Anche l’Italia si centra sulle proprie problematiche. È chiaro che vanno considerate anche le situazioni che l’Europa sta affrontando, in primis la guerra in Ucraina. Tuttavia, anche Roma non presta sufficientemente la sua attenzione all’internazionalizzazione. Oggi, più o meno, c’è un intercambio di circa mille milioni di euro. Dall’Argentina arrivano materie prime o prodotti non lavorati, mentre dall’Europa tecnologie e prodotti lavorati o finiti”.

Tuttavia, lo standard sarebbe molto al di sotto del potenziale massimo…
“È un intercambio minimo, soprattutto se pensiamo che il mondo è estremamente diverso rispetto a qualche anno fa. Si devono ridistribuire le filiere produttive, le catene di approvvigionamento. Il fatto della guerra in Ucraina, il processo rapido di de-globalizzazione, implica che l’Europa si stiano riposizionando e decidendo dove produrre e dove approvvigionarsi di materie prima. Non è più solo il costo ma anche la sicurezza”.

In un quadro come quello attuale, questo potrebbe far ricrescere l’interesse per Paesi lontani ma antropologicamente più vicini?
“Questo implica, e anche offre, nuove opportunità. I blocchi democratici, nella visione in cui li intendiamo, non sono molti. Le Americhe e l’Europa. L’integrazione più ragionevole è tra questi due gruppi. L’Europa è un posto dove si trasformano le materie prime, si riaggrega valore e si sviluppa tecnologie. E molti Paesi delle Americhe hanno materie prime in abbondanza, anche quelle utili per la transizione energetica. In questo processo, effettivamente, se ci si concentrasse in modo prioritario, le possibilità di intercambio e integrazione sarebbero enormi”.

Specie se ci si concentrasse in modo proficuo con un singolo partner. Ma sarebbe fattibile in termini di competitività con le potenze emergenti?
“Il nesso tra Italia e Argentina è privilegiato rispetto a quello con qualsiasi altro Paese. Come dico sempre, l’Argentina, per assurdo, coi suoi 13 mila chilometri di distanza, è molto più vicina culturalmente rispetto al Canton Ticino. Quindi, fare business, integrarsi o esportare prodotti in un mercato culturalmente vicino, è chiaramente più semplice. C’è poi un discorso di competenza. È difficilissimo, ad esempio, competere con la Cina laddove, in quel particolare contesto, il costo ambientale non esiste o dove non c’è il giusto rispetto per i diritti dei lavoratori. Essendo noi Paesi democratici, la struttura di costo può essere comparabile”.

Cos’è che manca?
“Purtroppo, noi europei siamo creativi ed emigranti ‘di successo’, vista la crescita del popolo italiano nei luoghi principali di emigrazione. Al contempo, però, siamo ‘lenti’ nel sviluppare e implementare le politiche. Quindi, se non ci muoviamo velocemente, vedremo emergere altri blocchi, che si stanno formando ed espandendo, come il Brics. E anche Paesi che sono molto più aggressivi, anche con politiche ‘questionabili’. È importante, quindi, che l’Italia e l’Europa si muovano rapidamente. Il rischio è di ritrovarsi poi in posizioni svantaggiate”.

A livello di risorse, e nonostante la lunga crisi attraversata l’Argentina si presenta come un partner potenzialmente di enorme rilievo. Quali sono i principali settori di produttività?
“Noi siamo in una situazione fantastica concettualmente. L’Argentina ha di tutto come materie prime e capitale umano. A cominciare dall’acqua dolce, che in futuro potrebbe generare forti crisi, agli alimenti, che l’Argentina produce per 500 milioni di persone avendone circa 40. E anche ai minerali, compresi quelli utili per la transizione energetica come il litio e il rame, e all’energia sotto tutti i suoi aspetti. Questo è molto interessante sia per le fonti rinnovabili, come solare, eolico, geotermico e idrico. Per quel che riguarda le fossili, penso in particolare al giacimento di Vaca Muerta, seconda riserva mondiale di gas non convenzionale e quarta di petrolio. Il gas è effettivamente l’unica energia utile per grossi consumi, nonché di transizione. Dalle rinnovabili si può fare idrogeno verde, dal gas quello azzurro. Il gas, peraltro, può essere un approvvigionamento, per l’Italia e l’Europa, a un prezzo competitivo e con flusso sicuro”.

E si intravede uno spiraglio collaborativo in questa direzione?
“In questo processo di de-globalizzazione se ne intravede uno di reshoring produttivo. E c’è anche il concetto del ‘near-shoring’, molto importante negli Stati Uniti e in Messico. C’è poi il ‘friendly-shoring’, che potrebbe fare al caso dell’Italia e dell’Argentina. Da un punto di vista produttivo, sarebbe interessante se si riuscisse a integrare filiere produttive, ad esempio in Argentina, dove l’energia è economica e dove c’è una base di capitale umano e condivisione culturale. Chiaramente bisogna avere una proiezione futura, anche sui mercati a cui, integrandosi, si avrebbe accesso. Con la crescita economica, molte più persone entrerebbero nella classe media e potrebbero consumare di più”.

Anche a livello economico i due Paesi hanno vissuto una fase di crisi molto simile. In questo periodo, una partnership con l’Argentina – e viceversa – avrebbe potuto forse andare incontro a entrambe le esigenze. Secondo lei, questo non è stato fatto anche per questioni diverse dalla politica? Penso ad esempio ai costi di trasporto…
“È abbastanza evidente il potenziale di integrazione. Se ci sono molti processi elettorali, molto spesso ci si preoccupa più di rinnovare una carica che di programmare uno sviluppo. Ritengo che ciò che ha bloccato o ridotto il ritmo di integrazione è prevalentemente un tema politico. In Italia c’è un nuovo governo in carica da poco tempo che si è per questo sostanzialmente concentrato su questioni interne fin qui”.

La transizione energetica è quasi un mantra in Europa ma sembra più complicata del previsto. È di sicuro un’opportunità ma c’è il rischio di compromettere le economie più fragili?
“Anche questo è un tema, diciamo, molto politico. Però c’è anche una realtà che è legata alle priorità. E, nel cammino della transizione energetica, sono fissate dalle realtà economiche di ogni Paese. Sembra più una problematica dei Paesi ricchi. Quelli poveri o in via di sviluppo, cercano di rispondere a bisogni più impellenti, come la sicurezza alimentare o l’approvvigionamento idrico. Inoltre, c’è anche una realtà economica: la transizione non è gratuita. Bisogna capire se le popolazioni sono disposte a pagarne i costi. Molte tecnologie odierne, così come le energie rinnovabili, funzionano grazie a sovvenzioni, senza un equilibrio economico ragionevole. Se dovesse mancare questo presupposto, non è detto che vengano implementate. I tempi saranno sicuramente molto più lunghi di quanto si pensa. Il consumo del petrolio, di fatto, sta crescendo e continuerà a farlo nei prossimi anni, perché cresce la domanda”.

Questo non toglie che, sia in Europa che nelle Americhe, siano state fissate delle deadline. Nel Vecchio Continente, ad esempio, i primi obiettivi sono al 2030. Vicinissimi…
“Sicuramente si va in questa direzione, i tempi saranno lunghi e i costi alti. Anche i consumatori, a un certo punto, potrebbero mettere un freno. La cosa positiva è che si stanno sviluppando tecnologie, c’è la conversione di alcune industrie per la riduzione delle emissioni. Ma non è realistico pensare che, tra dieci o quindici anni, il petrolio non esista più. Per questo il gas, di per sé, è una perfetta energia di transizione, proprio perché molto più pulito. Se dal carbone si passasse al gas, già si avrebbe un miglioramento importante”.

Bastano gli incentivi alle imprese?
“È fondamentale assicurare una sostenibilità al Pianeta ma i tempi saranno più dilatati rispetto a quelli che ci vengono proposti. Bisogna dare incentivi alle imprese e alle industrie, maggiormente consumatori di energia, per incorporare nuove tecnologie. E questo sta succedendo anche in Argentina, dove la transizione energetica è molto importante. Molte energie rinnovabili, per funzionare, hanno un consumo molto pesante in emissione. Quest’energia è pulita di per sé ma non per la sua messa in funzione. In Argentina i minerali sono in questo senso un altro settore importante”.

In Argentina c’è una forza lavoro potenzialmente di grande rilievo. Perché non si spinge per perseguire un obiettivo che, da un lato, favorirebbe sia le figure professionali del nostro Paese – per mettere a frutto le proprie competenze – sia quei lavoratori argentini che, in questo contesto, potrebbero risalire la china?
“Questo è un punto centrale. La cosa più interessante è proprio l’integrazione delle filiere produttive. Laddove la tecnologia europea può convogliarsi e fare leva sul capitale umano locale e sulle risorse locali, per produrre a prezzi competitivi. Sarebbe un export di alto valore, un barriers to entry. In Europa dobbiamo esportare conoscenza, know-how, la capacità di trasformare. Questo permetterebbe a Paesi come l’Argentina di attualizzare i propri sistemi produttivi. Se si riesce a integrare queste catene, si prevedrà l’impiego in bianco e di qualità. E l’effetto moltiplicatore coinvolgerebbe tutta la società, creando un risultato estremamente importante, togliendo povertà e restituendo futuro ed educazione”.

Questo in realtà è già successo in passato…
“La globalizzazione ha permesso a grosse fette della popolazione mondiale, cominciando dalla Cina, una crescita economica. In un’integrazione regionale dei blocchi, tutto questo si può ripetere. Credo che sia importante, sia per l’Italia che per l’Argentina, di pensarci. Qui c’è un processo elettorale in atto, nei prossimi giorni ci sarà il ballottaggio ma, secondo me, entrambi i candidati hanno una visione più aperta. L’economia chiusa, in Argentina, è insostenibile nel tempo. Dobbiamo lavorare affinché il prossimo governo apra il Paese e che torni nel radar un’internazionalizzazione di qualità, non una vendita di prodotti finiti di consumo massivo. Il potenziale è enorme, basta solo vederlo”.

In conclusione, qual è la situazione attuale per i giovani argentini dopo gli anni di crisi? C’è la possibilità di riemergere attraverso il lavoro “ordinario”?
“Credo che l’Argentina stia arrivando alla fine del ciclo del kirchnerismo, quello degli ex presidenti Nestor e Cristina, che ha abbracciato una visione più chiusa. Credo che il nuovo corso sarà diverso. Si dovrebbe tornare verso un’economia di libero mercato. Purtroppo, in questi ultimi anni tanti giovani stanno emigrando. C’è un’emigrazione di cervello, quindi di capitale umano. Per molti giovani, che hanno possibilità, come la doppia cittadinanza, o l’alternativa di andare all’estero, questa diventa un’opzione concreta. E anche l’impiego cresce poco, soprattutto per una politica di sussidio adottata dall’ultimo governo che, se non è transitoria, rischia di diventare un disincentivo al lavoro.

E chi non può emigrare?
“Cerca di vivere un po’ lavorando e ricevendo i sussidi, che sono però un disincentivo alla loro crescita. È chiaro che, anche con il nuovo corso politico, non potranno essere eliminati con un colpo di spugna ma occorrerà creare impiego per poter incorporare i percettori in modo degno e ‘in bianco’. Se ci sono distorsioni fiscali nel sistema tributario, è anche perché molti lavorano in nero, percependo al contempo il sussidio”.