Sullo stemma episcopale di monsignor Mariano Crociata c’è il motto: “Crux Christi pax”. Nella sua missione di vescovo (dalla diocesi siciliana di Noto alla segreteria generale della Cei alla diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno) dottrina e carità si intrecciano.
Afferma a Interris.it monsignor Mariano Crociata, vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno: “Dall‘esperienza della pandemia dovrebbe risvegliarsi in tutti un nuovo senso di solidarietà e di prossimità. Un senso nuovo di umanità che non rimane indifferente di fronte a nessuno. Anzi rende tanto più sensibili quanto più infelice è la condizione di chi si incontra“. Ex segretario generale della Cei, presiede la Commissione episcopale per l’Educazione cattolica, la scuola e l’università.
Spiega il presule: “‘Scartate’ sono tutte quelle persone che si sentono ridotte a oggetti che non servono più e buttate via come materiale di risulta che non si vede l’ora di fare sparire da qualche parte (e tra di essi quanti anziani!). Il dramma nel dramma è che uno in tali condizioni semplicemente non viene più “visto” da nessuno, perché non viene più guardato come una persona”.
“Dobbiamo aspettarci di vedere moltiplicata la folla dei miserabili nelle nostre società avanzate. Per non parlare dei Paesi meno fortunati e in condizioni socio-economiche più precarie. Va notato, in proposito, come le notizie su questi ultimi siano centellinate nelle nostre comunicazioni. Masse incalcolabili di cui non si ha idea esatta quanto ai numeri semplicemente scompaiono, nel silenzio generale. E poi va pure aggiunta un’altra questione”.
“La pandemia ha mostrato il suo volto spietato colpendo indifferentemente persone di ogni condizione sociale. Un feroce egualitarismo che non guarda in faccia a nessuno. E fa ‘scartati’ lì dove non ti saresti aspettato. Del resto è questa l’esperienza quotidiana di tante espressioni di carità cristiana. E anche di tanta umana solidarietà che questo tempo ha visto mobilitarsi. Un’iniziativa straordinaria che chiede di diventare stile permanente di carità cristiana e di umana prossimità verso chi ha più bisogno di noi”.
“’Cultura dello scarto’ è un modo di pensare e di agire, diffuso in ampi settori delle società del benessere. E in particolare nelle fasce benestanti. Considera inevitabile, e dunque alla fine non rilevante sul piano morale e psicologico, che ci siano persone che rimangono ai margini della partecipazione ai beni comuni, materiali e culturali. O che ne siano perfino del tutto escluse. Fa parte di tale cultura, perciò, il non sapere e, forse, il non volere prendere in considerazione la possibilità e le procedure necessarie per modificare un sistema sociale che produce scarti umani. In modo tale da consentire invece a tutte le persone di essere ammesse alle condizioni dignitose adeguate a ciascuno”.
“La ‘cultura dello scarto’ è per sua natura indifferente, porta con sé l’indifferenza. Cioè il non essere toccati e coinvolti dai tanti scarti umani che la società produce. La globalizzazione ormai ci ha fatti entrare in un sistema impersonale di comunicazione e di scambio che omologa tutto e tutti. E di cui è difficile risalire alle ultime responsabilità”.
“Ciò che prima poteva valere solo entro alcune società, oggi diventa questione e modo di pensare e di agire di tutti. L’indifferenza è generalizzata e il sistema produce, al di là delle specifiche situazioni nazionali, una quota crescente di emarginati e di esclusi”.
“Sono quei poveri o impoveriti, che si trovano o si sono ridotti fuori dal circuito del lavoro e dello scambio economico vitale. E che perciò non possono contare su risorse di sorta per portare avanti la propria vita o quella della famiglia. Le nostre città sono purtroppo popolate da sbandati e senzatetto. Ma questi sono soltanto la punta dell’iceberg di una folla di gente abbandonata e smarrita per i più diversi motivi, che vede attorno a sé soltanto porte sbarrate e strade chiuse”.
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