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Hamas contro Israele: perché il Medio Oriente è nel caos

Dai giorni di tensione ad al-Aqsa, nel 2021, all’esplosione di un conflitto in piena regola, dovuto all’offensiva improvvisa e violenta di Hamas in territorio israeliano. Il Vicino Oriente torna a esplodere, sul piano delle violenze e nel suo aspetto puramente geopolitico, rischiando di trascinare nel cratere dell’instabilità e della tensione anche altri attori internazionali. Una situazione in divenire per quel che riguarda la fase attuale ma che affonda le sue radici storico-politiche in una disputa territoriale storica che, già in passato, ha prodotto effetti devastanti. E, come già in altre occasioni, sono i civili a essere più esposti agli attacchi incrociati, col rischio che, a quindici anni da Piombo fuso, le offensive tra Israele e Hamas diventino prodromo di una tra le più gravi crisi umanitarie. Interris.it ne ha parlato con Giuseppe Dentice, analista e responsabile del Desk Medio Oriente e Nord Africa del Ce.SI – Centro Studi Internazionali.

 

Dott. Dentice, una nuova guerra rischia di sconvolgere l’assedio mondiale, nonostante l’apparente natura circoscritta. Segnali di inquietudine sono sempre stati frequenti in Medio Oriente ma l’escalation pare aver colto impreparata Israele. Da dove parte il nuovo conflitto?
“Sono assolutamente radici locali. Le motivazioni alla base di questa nuova fase di conflitto sono riconducibili alla sfera locale. Ossia alle interazioni tra Israele e palestinesi e, soprattutto, tra tra Israele, Autorità Nazionale Palesintese e Hamas, tra Gaza e Cisgiordania. C’è un elemento molto importante che non si può non considerare: le divisioni intra-palestinesi. Le competizioni tra Hamas e Anp e dentro lo stesso mondo di Hamas. Alla luce di questo ci troviamo con queste situazioni. La violenza emersa è il frutto di situazioni di contingenza. Rifletterei inoltre su ruolo e importanza del governo di estrema destra israeliano ma anche delle sue azioni nella West Bank (la Cisgiordania, ndr). Così come le azioni di terrorismo prodotte dai coloni dentro la West Bank. È un mondo di tutti contro tutti, in cui chi paga le conseguenze è la popolazione civile, sia palestinese che israeliana”.

È possibile individuare, nel passato recente, un momento di tensione tale da lasciar presagire lo scenario attuale?
“Un primo punto di svolta si è avuto tra aprile-maggio 2021, all’epoca delle violenze a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e nelle città arabo-israeliane. Situazioni che sono una summa di eventi che hanno portato a tutto questo. Difficilmente ci si poteva attendere un’escalation in queste proporzioni. Ma è chiaro che l’emergere di nuova violenza era un fenomeno preventivabile. Tant’è che le stesse forze di sicurezza israeliane, già da diverso tempo ne avevano preventivato l’insorgere soprattutto in Cisgiordania. Al momento l’attenzione è sulla Striscia ma il fronte dello scontro è molteplice e particolarmente complesso da affrontare, proprio perché le dinamiche sono in costante evoluzione”.

Fin dal primo momento si è ipotizzato un coinvolgimento esterno…
“Il coinvolgimento dell’Iran è possibile ma non è sicuramente il mandante di questo tipo di violenza. Sicuramente c’è stato un coinvolgimento in termini di supporto e pianificazione militare ma l’origine, l’ideatore degli attacchi rimane pur sempre Hamas. La quale avrà potuto sfruttare le relazioni con attori locali come Hezbollah, con alcune milizie siriane e, non ultimo, lo stesso Iran. Hamas però non è un monolite, al suo interno vi sono diverse anime. Quella che si dichiara più vicina a Teheran è quella che fa capo alle Brigate Ezzedin-al Qassam, il braccio militare di Hamas. Questo per dire che non è tutto così semplice e automatico, ci sono diverse increspature che devono essere analizzate in profondità per comprendere le varie ragioni e motivazioni dietro un determinato tipo di attacco”.

C’è il rischio che una scintilla locale produca effetti simili a quelli che abbiamo visto in Ucraina? Considerando anche la posizione di Israele  rispetto ai Paesi occidentali…
“La forte componente locale non esclude la dimensione regionale. Le radici profonde del conflitto devono però essere ricercate dentro Israele e dentro le dinamiche palestinesi. È evidente se, come Hezbollah ha minacciato, potrebbe alimentare il fronte nord, quello del confine tra Siria e Libano, già questo significherebbe una sorta di allargamento del conflitto. Con ripercussioni di varia natura. Non dimentichiamo, inoltre, che i Paesi arabi non hanno assunto posizioni nette di cesura o condanna delle attività di Hamas ma hanno mantenuto una posizione ambivalente, molto guardinga. Un po’ dettata anche da calcolo politico.

Tra questi attori emerge Riyad, anche per i processi di stabilizzazione diplomatica in corso con Tel Aviv…
“L’Arabia Saudita tratta con Israele questo presunto accordo di normalizzazione ma non può esporsi più di tanto prendendo posizioni anti-israeliane o filo-israeliane. Gli impatti sono quindi a raggiera: da una dimensione locale si va verso un allargamento a livello regionale e internazionale”.

L’ultima grande offensiva di Israele contro Hamas, l’Operazione “Piombo fuso”, colpì duramente la popolazione civile di Gaza. Quanto è grande il rischio di uno scenario simile?
“È un dato di fatto. Tralasciando la possibilità che via sia un’operazione di terra, che non può essere data per scontata, dobbiamo valutare che i primi a soffrire saranno gli stessi abitanti di Gaza. I quali, in un modo o nell’altro, si trovano costretti anche a subire le stesse angherie di Hamas e della jihad islamico-palestinese. In questo senso, è una popolazione doppiamente vittima perché subirà gli effetti di militarizzazione del contesto ma allo stesso tempo vive una condizione di stretta totale. Sono prigionieri stessi delle dinamiche prodotte da Hamas. Da questo punto di vista, i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, saranno quelli che subiranno comunque gli effetti di questa situazione di forte indigenza e instabilità”.

Damiano Mattana

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