Generale Burgio: “Il mio ricordo di Nassiriya”

L'intervista di Interris.it al generale Carmelo Burgio, già comandante del Reggimento​ M.S.U.​ in​ Iraq, in merito al ventesimo anniversario della strage di Nassirya

La base di Nassiryia dopo l'attentato (© Carmelo Burgio)

Sono trascorsi vent’anni, ma il ricordo della strage di Nassirya è ancora vivo negli occhi e nel cuore di ognuno di noi. Erano le 8.40 italiane del 12 novembre 2003, quando le due palazzine in cui risiedevano i carabinieri e i militari del contingente che faceva parte dell’operazione “Antica Babilonia”, sono state distrutte dall’esplosione di un camion cisterna carico di esplosivo, provocando il devastante scoppio del deposito di munizioni e la morte di ventotto persone: diciannove italiani e nove iracheni; di questi ultimi, dodici erano carabinieri, cinque militari dell’esercito e due civili. Venti persone sono rimaste ferite. Interris.it, in merito all’anniversario della strage di Nassiriya, ha intervistato il generale di corpo d’armata (r.o) Carmelo Burgio.

Il profilo istituzionale

Carmelo Burgio ha vissuto una vita al servizio delle istituzioni. Dopo aver frequentato dal 1972 al 1976 la​ Nunziatella​ di Napoli, dal 1976 al 1978 ha frequentato l’Accademia Militare di Modena – e quindi la Scuola Allievi Ufficiali Carabinieri. Il primo incarico è presso il 1° Btg. CC par. Tuscania a Livorno, partecipando dal 1980 al 1982 alla missione LIBANO2 a Beirut. È poi Comandante di Sezione del GIS e successivamente Vicecomandante del​ Gruppo di Intervento Speciale​ (GIS); nel 1997 è comandante prima del Battaglione Paracadutisti (impiegato nell’operazione Alba​ in Albania e nella missione IFOR e SFOR in Bosnia) e poi del​ 1º Reggimento Carabinieri Paracadutisti “Tuscania”. Nel 2003 è Comandante del Reggimento​ Multinational Specialized Unit​ in​ Iraq, subito dopo l’attentato di Nassiriya del 12 novembre 2003, e in seguito Comandante Provinciale Carabinieri a​ Trapani​ e a​ Caserta. È stato anche Capo del I e poi del III Reparto alla​ Direzione Investigativa Antimafia. Promosso​ Generale di Divisione​ nel 2017, dal 23 luglio 2019 ha ricoperto l’incarico di Comandante delle Scuole dell’Arma dei Carabinieri, Comando di Vertice dell’Organizzazione Addestrativa dell’Arma dei Carabinieri. Nominato Generale di Corpo d’Armata, dal 17 gennaio 2020 è alla guida del​ Comando interregionale Carabinieri​ “Culqualber”, con sede a​ Messina. Il 13 gennaio 2021 si insedia come nuovo Comandante Interregionale Carabinieri “Podgora” di Roma. Ha lasciato il servizio attivo nel giugno 2022, al compimento del 65° anno di età. È autore di svariate pubblicazioni, tra cui l’ultimo libro intitolato: “Nassiriya: dall’attentato alla ricerca della verità”.

Il Generale di Corpo d’Armata Carmelo Burgio (© Carmelo Burgio)

L’intervista

Generale Burgio, ricorre il ventesimo anniversario dalla strage di Nassiriya: che cosa ricorda di quel 12 novembre 2003?

“Sono arrivato in Iraq il 5 novembre 2003 perché ero stato designato dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri quale successore del Comandante che aveva aperto la missione a Nassiriya. In quei casi si trascorre un periodo di una settimana/dieci giorni di cosiddetto ‘affiancamento’, che serve per capire la situazione, per poi assumere il comando il 13 o 14. Il giorno 11, al pomeriggio, ho ricevuto dal Comandante della brigata italiana l’ordine, per il 12 mattina, di accogliere una troupe cinematografica che doveva girare un film su Nassiriya. La sera dell’11, invece, sono stato chiamato dalla città di Bassora, dove aveva sede il Comando superiore, ovvero la divisione britannica, e il Generale Comandante mi ha ordinato di presentarmi da lui. Sono partito di buon mattino e, dopo essere arrivato lì, ho saputo che dieci minuti prima c’era stato l’attentato a Nassiriya: questo è il primo ricordo. Il secondo è stato arrivare sul posto e vedere quella distruzione, a cui penso nessuno sia abituato. Il mio terzo pensiero era che, essendo il Comandante del reggimento dei paracadutisti e avendo ricevuto un particolare addestramento, avevo il dovere di riportare quei ragazzi a casa, perché prima dell’attentato qualcuno aveva deciso che avrei assunto quel comando. In quel momento ha aiutato il non pensare ai ricordi, ma solo al domani”.

Nassirya (© husssam jaafar da Pixabay)

Lei è stato a Nassiriya subito dopo l’attentato. Come ha trovato la situazione nella base Maestrale?

“Sono arrivato lì il 5 novembre. Purtroppo, io e molti altri, durante il processo, abbiamo sottolineato che quella base, oggettivamente, dal punto di vista della sicurezza registrava delle carenze. Se non vi fossero state, non ci sarebbe stato quell’attacco che ha distrutto completamente la base contro cui è stato lanciato. Tutti quelli che si trovavano all’interno sono stati uccisi o feriti, tranne uno che, per un caso fortuito, si trovava nel bagno in cemento armato: è l’unico che non ha riportato nemmeno un graffio. Tutto ciò che era nella base è stato devastato. Non ne è rimasto nulla. Un attacco che raggiunge un risultato del genere è anche frutto di carenze. L’ha detto in più occasioni la Corte di cassazione, che ha emesso delle sentenze di condanna al risarcimento dei danni. Ogni base, al proprio ingresso, dovrebbe avere delle lunghe serpentine per obbligare chi arriva a rallentare in modo che, se ha delle intenzioni ostili, sia costretto a fare una sorta di chicane, rendendo più facile la difesa per chi si trova all’interno. La base di Nassiriya invece ne era sprovvista ed era costeggiata da strade lasciate libere al traffico. Quindi, sarebbe stato sufficiente che una macchina si fosse fermata nei pressi della base e, senza neanche tentare di entrare, avrebbe potuto farsi esplodere. Questo non andava bene. Le basi non possono avere libera percorrenza a piedi o in macchina, ma devono essere circondate un’area di rispetto. Lo dicono delle norme ben precise. Non saprei motivare perché questo non sia avvenuto. Fatto sta che, da quando sono arrivato fino al giorno prima dell’attentato, in più occasioni, avevo rappresentato che fosse necessario fare qualcosa in merito, come risulta dalle carte processuali. Il collega che stava cedendo il comando mi aveva assegnato un ufficiale abbastanza esperto per darmi una mano nel redigere il nuovo piano di fortificazioni che bisognava fare. Il generale Stano, che comandava la base più addentrata nel deserto, a Tallil, stava a sua volta potenziando le difese; ciò significa che, forse, ci si era accorti del fatto che la situazione era leggermente cambiata. Ricordo che in quel periodo gli attentati suicidi erano il mezzo più diffuso della guerriglia sunnita filo Saddam e il generale Stano aveva dato disposizioni che anche la loro base nel deserto, come si dice in gergo, venisse ‘indurita’. A quel tempo c’era stato un attentato alla sede dell’Onu a Bagdad dove ha perso la vita l’Alto Rappresentante dell’Onu in Iraq. C’era inoltre stato un attentato alla sede della Croce Rossa con molti morti e feriti. Oggettivamente le avvisaglie erano abbastanza preoccupanti e forse bisognava essere più solleciti nel reagire e indurire le difese. Questo è ciò che, evidentemente, ha ritenuto la magistratura nel prendere le sue decisioni”.

Recentemente ha dato alle stampe il libro “Nassiriya: dall’attentato alla ricerca della verità”. Cosa l’ha spinta a scrivere il libro?

“Il fatto che, in Italia, l’attentato di Nassiriya è stato trattato dalla stampa ricorrendo alle banalità. Bisogna avere il massimo rispetto per i caduti e, da militare di professione, è inutile che dica qual è il mio rispetto per loro. Quando ho visto che, subito dopo l’attentato, c’era una rincorsa a voler parlare e analizzare senza essere stati sul campo, senza gli adeguati strumenti per giudicare. Il libro vuol dire che – Nassirya – non ha rappresentato solamente diciannove morti tra carabinieri, militari dell’Esercito e due civili, ma ha rappresentato anche molte persone che, in silenzio, si sono rimboccate le maniche pensando a fare il proprio dovere fino alla fine. Ero il comandante del reggimento paracadutisti e, in quel momento, avevo molta esperienza operativa sulle spalle. Con il plotone dei miei Carabinieri paracadutisti, eravamo addestrati e, alcuni di loro, avevano partecipato a precedenti missioni in Somalia, Albania, Libano o Sarajevo. Tutti gli altri però, compresi i militari stranieri, tra cui una compagnia di romeni e una di portoghesi della Guardia Nazionale, non avevano un addestramento specifico per quel determinato scenario. Questo è uno dei motivi per cui ho scritto questo libro. Queste persone, per la maggior parte, pur non avendo l’addestramento per quegli scenari di combattimento, si sono rimboccate le maniche e con il cosiddetto ‘on the job training’ sono rimaste lì e, con la paura, hanno terminato la missione”.

Che messaggio ha voluto lanciare attraverso il libro?

Il libro serve a dire basta a coloro che parlano senza sapere cos’è successo a Nassirya e che non possono capire cosa abbiano vissuto i miei uomini. È giusto pensare ai caduti, ma occorre rivolgere un pensiero anche alle centinaia di persone che, silenziosamente, hanno continuato a fare il loro dovere per mandare avanti il reggimento. Purtroppo, in materia di giudizio, si è detto di tutto e la si è messa in politica. C’era chi non voleva condannare nessuno perché riteneva un obbrobrio il fatto che la giustizia italiana punisse un Ufficiale dell’Esercito o dei Carabinieri per un attentato terroristico subito. C’era poi un’altra parte che voleva la condanna di tutti coloro che rivestivano incarichi di comando in loco e i vertici politici e militari tout court. Ho cercato di analizzare ciò che è successo e capire il motivo tecnico per cui si è arrivati a determinate decisioni. I comandanti militari all’estero sono sottoposti alla legge penale italiana e agli obblighi propri della figura del datore di lavoro in Italia. Dopo un’esperienza come quella di Nassiriya, subire un processo, soprattutto se termina con un’assoluzione, è devastante. Si immagini ad esempio quando si devono salvare delle vite umane in mare: può darsi che un’imbarcazione o un velivolo siano usciti ugualmente, nonostante le condizioni metereologiche avverse, per trarre in salvo delle persone in difficoltà. In certi frangenti però, un comandante, per evitare lunghe vicende giudiziarie, potrebbe decidere di evitare certe azioni”.

Come è cambiato l’approccio nelle missioni di pace dopo l’attentato di Nassiriya?

“Nel 2010 – 2011 si è arrivati a dare le responsabilità proprie di un datore di lavoro a un comandante sul campo. Ciò significa che, nell’approccio a queste missioni, nulla è cambiato. Personalmente, a Nassiriya e in Afghanistan, mi sono assunto delle responsabilità notevoli. In quest’ultimo ero comandante della struttura Nato che addestrava la polizia e dovevo visitare i centri di addestramento, tra cui quelli situati in aree di combattimento. L’Italia aveva stabilito che i suoi militari non dovessero operare in determinate aree, in particolare nel sud e nell’est del paese. Nonostante ciò, ho fatto il mio dovere e sono andato a visitare quelle scuole. A Nassiriya, ad esempio, quando una milizia di partito ha ucciso quattro poliziotti locali, intervenuti dopo il sequestro e la tortura di due cittadini iracheni, avrei potuto fare a meno di intervenire, ma non me la sono sentita perché rappresentavo l’Italia. A me è andata bene, l’operazione ha avuto successo ed ho riportato a casa i miei Carabinieri. Ma cosa sarebbe successo se uno dei miei uomini fosse stato ucciso? I militari italiani hanno fatto moltissime esperienze di questo genere, prendendosi delle responsabilità, ma c’è stato anche chi ha pensato a cautelarsi”.

Il generale Burgio con il generale Petraeus e il segretario generale della Nato Rasmussen (© Carmelo Burgio)

Come è cambiata la sensibilità degli italiani verso il terrorismo dopo il 12 novembre 2003?

“I cittadini italiani, in quel momento, non hanno capito bene cosa stesse succedendo. Si è compreso che c’erano stati molti morti e non si è ben percepita la situazione. In Italia, il terrorismo spesso viene vissuto attraverso il filtro del rispettivo credo politico. Questo è molto sbagliato, perché il terrorismo consiste nel fare degli attacchi indiscriminati. Non c’è una definizione unitariamente e univocamente accettata del fenomeno. In questo panorama, pensare che il cittadino italiano abbia capito cos’è successo a Nassiriya è una pia speranza. Dopo l’attentato, c’è stato chi ha scritto ’10, 100, 1000 Nassiriya’ e chi ha ritenuto giusto fare collette e portare fiori davanti alle nostre Caserme o all’Altare della Patria per rendere omaggio ai morti. Il terrorismo colpisce anche chi non c’entra niente. Il 12 novembre 2003, oltre ai militari, sono stati uccisi anche dei civili iracheni, che avevano la sola sfortuna di abitare accanto alla base coinvolta nell’attentato. Gli attentatori lo sapevano benissimo e hanno accettato tranquillamente il fatto che degli innocenti potessero morire. Ciò non è accettabile, ci sono delle regole d’onore previste dal diritto umanitario che vanno rispettate anche in guerra. Non si uccidono gli inermi, non si colpiscono le memorie archeologiche, non si usano scudi umani e non si coinvolgono in alcun modo i civili. Questi atti qualificano il terrorismo. Il militare, oltre alla propria retribuzione, ne ha un’altra che è la difesa del proprio onore ed è orgoglioso di rappresentare il proprio paese rispettando delle regole. Se non avessimo fatto questo ragionamento, dopo l’attentato, avremo dovuto sfruttare ogni occasione per farci giustizia, ma non l’abbiamo fatto. Lo stesso ragionamento vale per la cattura dei più pericolosi latitanti: quando li si arresta devono essere rispettate delle regole, assicurandoli alla giustizia. Dopo l’attentato c’era molta prevenzione ma, com’è confermato dagli atti, in nessun caso si è leso l’onore delle forze militari che rappresentavamo. Eravamo assolutamente determinati a non subire altri colpi ma, al tempo stesso, non abbiamo mai violato le norme che imponevano il rispetto per la popolazione”.

Che messaggio desidera rivolgere ai Carabinieri che oggi sono impegnati nelle missioni di pace nel mondo?

“La parola missione di pace è fuorviante. È una missione che serve per mantenere la pace ma il concetto è profondamente diverso. Le strutture militari vengono dispiegate per imporre la pace. A Srebrenica tutti hanno criticato quel battaglione di paracadutisti dell’Onu che ha lasciato il campo. Fatto dopo il quale il generale Mladic, ha compiuto un massacro di civili. Pochi ricordano però che, essendo un battaglione dell’Onu dotato di soli armamenti leggeri, quando è stato circondato dalle truppe serbo – bosniache pesantemente armate e si è sentito intimare di consegnargli i civili di una certa età, l’alternativa era di farsi massacrare. I contingenti Onu, per loro policy, si recano negli scenari o senza armi o leggermente armati. Le missioni di imposizione della pace che hanno avuto come protagonisti i contingenti Nato sono impostate su un altro concetto; si veda la Bosnia nel 1996 dopo gli Accordi di Dayton: se uno dei contendenti avesse deciso di violare gli accordi di pace, si sarebbero avuti a disposizione i mezzi per reprimere i tentativi di violare gli accordi internazionali. Spesso si dimentica che – questi contingenti – hanno una ragione d’essere finché hanno un potere deterrente per garantire la pace. Il messaggio che voglio dare a chi svolge queste missioni è: bisogna tenere ben presente il compito che ci ha dato la nazione e lo Stato Maggiore della Difesa. I comandati però, devono ricordarsi di fare tutto per riportare a casa i loro ragazzi, assolvendo la propria missione”.

Qual è la sua speranza per il futuro?

“Spero che, con il tempo, anche a livello legislativo, si prenda consapevolezza del fatto che, operare nel deserto di Nassiriya è diverso dall’operare in una caserma in Italia, con delle diverse esigenze da assolvere. Il rischio è che, con una normativa a volte assurda, si porti qualcuno a decidere di non fare più nulla”.