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Marco Frittella: “Green economy? Italiani all’avanguardia”

“Agricoltura domani”, programma Rai di fine anni Settanta assorbito dal più noto Linea Verde all’inizio del decennio successivo, contiene in sé qualcosa di profetico. Quasi un invito a pensarci sopra, dal momento che, industria o no, il settore agricolo rappresenta ancora parte integrante dell’attività produttiva del nostro Paese. Uno stimolo per le generazioni future che, in quel programma, vedono ancora uno spaccato d’Italia green che ha qualcosa di più di una semplice aura nostalgica. Anche la carriera in Rai di Marco Frittella, fra i più noti volti del Tg1, è iniziata da quel “domani”, per proseguirvi attraverso decenni di politica e società fino a toccare il cuore più profondo di quel “verde”. Anglicizzato e prestato a un’economia che, in tempi di Friday for future e sensibilità sempre maggiore sulla tematica ambientale, con il bio deve per forza fare i conti. Ma di letteratura sull’emergenza ambiente ce n’è. Quello che mancava era una mappatura delle soluzioni al problema. Una ricerca necessaria convogliata in Italia green (Rai Libri) e conclusa con risultati inaspettati. Specie per quel che riguarda il nostro Paese.

Marco Frittella, il tema ambiente, specie nell’ultimo anno, ha fatto grossa presa nell’immaginario collettivo. Da dove nasce l’idea di tracciare un profilo dell’Italia Green?
“Partiamo da una premessa: ci sono moltissimi libri sulla tematica ambientale, o meglio sul problema ambientale. Siamo pieni di libri sulla crisi climatica, ecc. Ci sono pochi libri sulle soluzioni alla crisi climatica. E pochissimi, quasi nessuno, sulle soluzioni sperimentate in Italia su questo tema. Quelli che ci sono, servono più che altro ad addetti ai lavori, non destinati al grande pubblico. Mi sono accorto di me stesso che ogni qual volta leggevo un articolo in cui si descriveva una cosa positiva fatta da qualche italiano su un tema ambientale, quanto la cosa mi incuriosisse. Ok i problemi ma, ogni tanto, c’è bisogno di dire che una determinata cosa si è fatta. Una curiosità personale che poi è diventata ricerca. Man mano che mi avvicinavo al tema ambientale, la svolta che sta già avvenendo nel mondo dipende dai grandi regolatori mondiali internazionali, come le grandi conferenze dell’Onu, i grandi piani europei”.

E funzionano?
“Fino a un certo punto, soprattutto le Conferenze ambientali. Che pongono degli obiettivi, come quelli dell’agenda 2030, ma non prevedono nessuna sanzione per chi non li segue. Il che aiuta assai poco prima che il cambiamento climatico ci travolga. Mi sono accorto che la vera svolta verrà dal mondo delle imprese, dai comportamenti individuali, da un ambiente a-istituzionale. Le aziende cominciano a capire che l’evoluzione green del business conviene a loro. Anche la finanza lo ha capito e lo hanno capito le persone, che hanno comportamenti diversi. Questa idea del plastic free è importante, anche se forse non risolutiva. Tutti questi aspetti tornano all’analisi del libro. Andiamo a vedere che cosa in concreto si fa nel mondo in tema ambientale in Italia”.

E a che punto è il nostro Paese, oltre alle iniziative plastic free?
“La scoperta è che si fa moltissimo, più di quanto si pensi. L’Italia è campione europeo di economia circolare e di gestione dei rifiuti. A Treviso, ad esempio, la differenziata arriva al 90%. Da nord di Roma in su è così, e anche in svariate isole del Centro-Sud. In alcuni casi sono stati persino raggiunti gli obiettivi 2030, in altri già superati. Certo, persistono problemi gravi e non sono risolti drammi come la Terra dei fuochi ma, se guardiamo completamente il sistema Italia, l’economia circolare ci pone ai primi posti in Europa. Non dobbiamo dimenticarci di essere fra i migliori in materia di economia circolare e gestione dei rifiuti. E da qui ci si può allontanare in qualunque campo, trovando tantissime cose positive che gli italiani fanno”.

Parlando di ambiente c’è però il problema plastica. Un materiale che entra direttamente nel discorso ambientale, sia dal punto di vista dell’inquinamento che nella possibilità di utilizzare un’alternativa bio…
“Giulio Natta è il papà della plastica ma gli italiani sono anche i papà della soluzione al problema. La bioplastica, ottenuta con gli scarti vegetali. E’ il futuro: una plastica perfettamente biodegradabile che non impiega mille anni per decomporsi. Certo, non possiamo pensare che la bioplastica si diffonda subito nel mondo. Che si fa nel frattempo? La plastica si può bruciare ma quella vergine si può anche riciclare. E anche sotto questo profilo, ci sono alcune tecnologie italiane che sono innovative, studiate e realizzate da gruppi di aziende di acqua minerale. Uno di questi è stato il primo al mondo a utilizzare la plastica riciclata per fare le bottiglie. Per legge non si può fare una bottiglia di acqua minerale nuova se non ha il 50% di plastica vergine e riciclata. Una norma figlia della diffidenza del rifiuto riciclato. Presto avremo una norma che consentirà di fare col 100% di plastica riciclata. Questo consente di non produrre più, o sempre meno, materiali di plastica e utilizzare quella che gira nel mondo. Poiché il consumo di plastica è previsto in gigantesco aumento nel mondo, bisogna far sì che gli oggetti siano di plastica riciclata. Altrimenti l’alternativa è il termovalorizzatore, il cui numero eccessivo non sarebbe tollerato. Dieci grandi fiumi del Terzo mondo sono i più grandi portatori di plastica negli oceani. E sono quelli che attraversano i Paesi più poveri. Noi italiani abbiamo inventato la tecnologia per togliere la plastica galleggiante”.

Sul piano imprenditoriale, c’è un supporto specifico per questo tipo di attività? O c’è il rischio che impresa e coscienza collettiva non vadano di pari passo?
“Un problema è quello dell’impiantistica. Una politica favorevole all’economia circolare sostiene gli impianti di trattamento dei rifiuti. Gli impianti però stanno subendo degli stop, per barocchismo del nostro sistema organizzativo. Ma non è solo autorizzazione normativa: gli impianti subiscono un ingiustificato rifiuto dal punto di vista sociale. Il no in Italia si è talmente diffuso che purtroppo blocca moltissimi impianti. Ma questo vale anche per le rinnovabili, come ad esempio le pale eoliche. Una politica nazionale deve favorire il sistema normativo dei permessi. Ma non basta, perché hai il problema della commercializzazione del rifiuto riciclato. In Italia, ciascun prodotto di materia prima seconda ha bisogno di un atto normativo che ne autorizzi la commercializzazione: il decreto end of waste. E per averlo c’è da faticare. Ce n’è uno per i pannolini, un’invenzione geniale fatta da un’azienda di Pescara in collaborazione con un’azienda di gestione dei rifiuti del trevigiano che produce granuli di cellulosa. E per averla ci sono voluti sette anni di contenzioso. Alla fine, l’azienda ha vinto ed è stato approvato il decreto. Ora l’azienda è legittimata a riciclare pannolini. Ma erano pronti a portarli in un altro Paese, dove lo aspettavano a braccia aperte”.

Qualcuno, meno bravo o meno fortunato, lo ha fatto?
“Sì, purtroppo è accaduto”.

E’ un freno culturale o parliamo, anche qui, di un sistema normativo ancora non predisposto a un supporto di questo tipo?
“La stratificazione legislativa che risale agli ultimi trent’anni è il grandissimo freno allo sviluppo, anche a quello green. Laddove un’azienda riesce a svicolare dai lacci normativi, più che burocratici, le cose da fare (e fatte) sono tantissime”.

Damiano Mattana

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