“Feral Children”: può l’ambiente influenzare il comportamento?

I “feral children” sono quei bambini che, secondo le varie narrazioni nei secoli, in tutta l’Europa, hanno convissuto, dalla nascita, con gli animali, in particolare i mammiferi, finendo per acquisirne le caratteristiche. La scienza non ha certificato quello che la letteratura ci ha tramandato, dai celebri Romolo e Remo, dai personaggi inventati di Mowgli e Tarzan. Al di là della leggenda e della fantasia narrativa, alcuni di questi rari casi sono stati, probabilmente, collegati a disabilità di bambini malati e abbandonati. Per secoli, il riferimento a questi giovani e selvaggi è stato strumentale, artefatto e utilizzato per dimostrare ancor di più, alla popolazione, quanto fosse indispensabile e necessaria la civilizzazione imposta, pena lo scadimento alla condizione di uomo/animale.

Ragazzi selvaggi

La storia riporta diversi casi di bambini e ragazzi vissuti lontano dagli altri uomini e a contatto solo con la natura e gli animali, sviluppando un apprendimento cognitivo e comportamentale del tutto particolare. Wikipedia, alla voce “Ragazzo selvaggio” elenca una lunga serie di casi, alcuni davvero curiosi, che si snodano sin dai tempi antichi per arrivare a episodi, presunti, del nostro tempo. Le fonti non sono certe e la stessa comunità scientifica ha espresso dei dubbi.

Nella cultura europea dei secoli scorsi, anche in Italia, vi era la tendenza a considerare come folletti o strane creature della foresta e del bosco, quei bambini che, invece, presentavano forme di autismo o di disabilità. Considerati ai margini, in assenza di consapevolezza della scientificità del disturbo, erano considerati come facenti parte di un mondo di folletti, fate e troll, padroni del territorio.

L’uomo, un animale sociale

Il grande filosofo Aristotele ricordava come l’uomo fosse un animale sociale, sottolineando l’importanza di vivere e confrontarsi in una società di pari. Lo stato di isolamento e di scarsa socialità, relativo all’attuale periodo di pandemia e, soprattutto, alle precedenti e dure quarantene, ha prodotto, quindi, delle ripercussioni che sono molto evidenti e, a proposito delle quali sono stati lanciati numerosi allarmi.

In un articolo, pubblicato lo scorso 8 febbraio, sul sito della Fondazione Veronesi, al link https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/neuroscienze/socialita-le-altre-persone-sono-per-noi-necessarie-come-il-pane, si legge quanto segue “Abbiamo bisogno degli altri come del pane per vivere. Non è soltanto un modo di dire. Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Nature Neuroscience, infatti, i nostri bisogni sociali, di comunanza e di scambio con gli altri essere umani accendono nel nostro cervello le stesse aree stimolate dalla fame. Fame di cibo. Dunque, socialità come ‘cibo per la mente’? Sembrerebbe di sì. Non ci potrebbe essere argomento più attuale in tempi di isolamento forzato e quarantene a causa della Covid-19. Che l’isolamento non faccia bene ai più era già un sospetto diffuso. Ora dovremmo avere le prove. L’esperimento è stato condotto al Department of Brain and Cognitive Sciences del Massachusetts Institute of Technology di Cambridge (Stati Uniti) arruolando 40 giovani adulti (età 18-40 anni) dall’intensa vita sociale e sottoponendoli a dieci ore di assoluto isolamento, anche virtuale. Ad analoga prova sono, poi, stati indotti con dieci ore di digiuno […] Le reazioni di ognuno di loro (27 le donne) sono state studiate con la risonanza magnetica nucleare funzionale al cervello per seguire che cosa la ‘mancanza’ in un caso e nell’altro aveva prodotto. E i ricercatori hanno visto che in entrambi gli esperimenti si era attivata la substantia nigra, una piccola area cerebrale che già si sapeva coinvolta col bisogno, il craving, la necessità di nutrirsi. […] Dunque il bisogno di una vita rientra tra i bisogni fondamentali della persona, al pari del cibo e del sonno, osservano i ricercatori”. Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento Neuroscienze e Salute mentale Asst Fatebenefratelli-Sacco di Milano co-presidente della Società italiana di Neuropsicofarmacologia, spiega “La mancanza di contatti umani, oltre a renderci desiderosi di conversazioni, strette di mano e abbracci, ha conseguenze gravi sul benessere mentale. Un’indagine pubblicata sulla rivista scientifica The Lancet Psychiatry, condotta su persone adulte e durata dodici anni, ha dimostrato che almeno 1 caso di depressione su 5 è direttamente provocato proprio dall’isolamento sociale e dalla solitudine che ne deriva”.

L’Ipsos (istituto di ricerca e sondaggi), nel suo ultimo rapporto sulle previsioni globali per il 2021 a livello mondiale, pubblicato il 28 dicembre scorso al link https://www.ipsos.com/it-it/previsioni-globali-2021, fra i vari dati indicava “Il 46% afferma che farà nuove conoscenze nella propria zona, una cifra che quasi raddoppia in Cina (84%), invece, in Giappone soltanto il 15% ritiene probabile che ciò accada. L’Italia si colloca in una posizione neutra, con una percentuale del 50%. La solitudine preoccupa 3 persone su 10”.

Uomo e lupo

Al di là dei personaggi di fantasia creati dagli scrittori nei romanzi e abbondantemente proposti nei film, ne esistono di reali, come il caso del ragazzo che, dalla nascita sino ai 12 anni (nel 1798), era vissuto sempre nei boschi francesi di Aveyron, senza alcun contatto con l’uomo. Itard, il pedagogista che lo prese in carico e cercò di avviarlo alla natura umana, era consapevole di quanto potesse esser lungo questo processo di socializzazione. Si era anche nel periodo in cui iniziava la considerazione dell’infanzia e dell’adolescenza come una fase importante, a se stante e con delle prerogative specifiche, non solo periodo transitorio e di passaggio all’età adulta.

Il ragazzo compì diversi progressi ma non riuscì a comunicare con il linguaggio verbale. Il tempo in cui era stato nei boschi non era enorme, limitato a 12 anni, ma si trattava dei primi della sua vita, periodo in cui, attraverso l’interazione con l’ambiente, la cultura e il prossimo, si formano le strutture cognitive alla base di tutti gli apprendimenti.

Itard capì, così, come il linguaggio, frutto della socialità e del graduale sviluppo nell’apprendimento, non fosse originario nell’uomo né riattivabile in periodi successivi.  Dimostrò quanto l’ambiente fosse importante nella formazione linguistica dell’essere umano, sin da bambino.

La contesa: natura o società?

La vicenda di questo ragazzo contribuì ad alimentare la disputa tra chi riteneva fondamentale, nello sviluppo dell’essere umano, il condizionamento dei fattori ambientali e chi assegnava la primigenia ai fattori antropologici e naturali.

L’argomento è stato trattato, molte volte, strumentalmente, come il mezzo per legittimare le proprie idee di tipo pedagogico. Rousseau insisteva sul mito del “buon selvaggio” (per lui, gli uomini nascono buoni e rifiuta, quindi, la presenza del peccato originale) e, nell’opera “Emilio o dell’educazione”, raccomandava un insegnamento lontano dalla presunta civilizzazione e dalla società corrotta, a favore di una crescita genuina solo in campagna. Itard credeva ciecamente e soltanto nella civilizzazione per compiere il processo educativo e formativo (in realtà, smentito dai fatti). Le qualità innate di ingenuità, innocenza, altruismo prospettate da Rousseau contrastavano con chi vedeva, nella natura, uno scontro fra gli uomini, l’uno contro l’altro, nel pieno trionfo dell’egoismo e dell’accaparramento. La contesa proseguì per secoli e coinvolse pedagogisti, filosofi, poeti e studiosi.

Attenzione alla socialità

Oggi, la contrapposizione è meno avvertita poiché è, ormai, “inculcato” come oggettivo, che la civiltà, la tecnologia, la globalizzazione e l’urbanizzazione siano l’unico volano per la crescita morale ed educativa. Le parole di Austin O’Malley, statunitense medico e professore di letteratura inglese, “I selvaggi più pericolosi vivono nelle città”, invitano a riflettere.

Per chi ancora non crede in questi mantra, è opportuno spostare l’attenzione sulla socialità, precedente all’istruzione, che si può e si deve attuare in tutti i contesti possibili, sia quelli più sviluppati sia quelli più tradizionali sia quelli più fragili e indifesi.

Il vantare la supremazia della tecnologia tende a prescindere dall’aspetto sociale ma tale omissione, a pensarci bene, non le concede alcuna priorità pedagogica, culturale, morale ed estetica.