L’”effetto spettatore”: la tendenza all’immobilismo che ci rende tiepidi

L’“effetto spettatore” è una giustificazione mentale, oggetto di studio della psicologia sociale dal finire degli anni ’60 del secolo scorso, per la quale più persone presenti sono restie ad aiutare un individuo in difficoltà, immaginando che intervenga qualcun altro. Il fenomeno riguarda soprattutto le culture edonistiche occidentali, rispetto a quelle orientali che, con mentalità collettivista, sono maggiormente propense all’intervento e al comportamento pro sociale.

L’apatia

Altrimenti definito come “apatia dello spettatore”, “apatia degli astanti”, “effetto testimone” e “bystander effect”, è uno dei maggiori limiti all’altruismo e all’aiuto nei confronti dei più deboli. Il teorema è: la probabilità di un’attivazione del singolo è inversamente proporzionale al numero degli astanti. Più è alto il numero delle persone presenti all’evento, più la tendenza è a deresponsabilizzarsi e a contare che, all’intervento, ci possa pensare (o ci abbia già pensato) sicuramente un altro fra i tanti sul posto.

Il caso

Gli eventi classici si riferiscono ai casi di cronaca nera. L’esempio più noto è quello dell’assassinio, nel 1964, a New York, della giovane statunitense Kitty Genovese in cui i 38 astanti non mossero un dito per intervenire e per chiamare i soccorsi (non si è certi di questo totale disinteresse poiché sembra che la stampa dell’epoca modificò una realtà diversa). John Darley e Bibb Latané, psicologi statunitensi, approfondirono gli studi sul concetto dell’effetto spettatore proprio in seguito al grande clamore suscitato dall’omicidio della Genovese. Il loro lavoro fornì un importante contributo poiché coglieva altre cause nell’inattività delle persone. L’opinione pubblica lo considerò come un fatto contingente, legato alla dissoluzione morale, invece i due autori capirono l’atteggiamento insito nel comportamento umano e non più causale o circostanziale. In particolare, evidenziarono la cosiddetta “diffusione della responsabilità”, l’atomizzazione del dovere, suddiviso e disperso tanto più numerosa è la presenza degli astanti. 

Come si concretizza l’immobilismo

La volontà umana risulta, a volte, condizionata dagli automatismi della mente e compromette la possibilità di realizzare se stessi e contribuire alla formazione del prossimo. L’immobilismo si concretizza in una o più fasi: dal non impedire l’evento, dal non limitarlo e dal non segnalarlo. Si assiste anche a una reazione di tipo vicario, in cui la tendenza è nell’osservare il comportamento delle altre persone presenti e, in un processo imitativo di “influenza sociale”, a valutare se sia il caso di agire. Il termometro dell’emergenza è nel comportamento degli altri. L’apatia degli astanti riveste altre caratterizzazioni e si sviluppa anche in presenza di situazioni diverse. Un esempio è l’esser testimoni di un incidente automobilistico e indugiare ad avvertire i soccorsi poiché certi (o lo si vuol credere per comodo) che ci abbia pensato qualcun altro. L’inazione e il tirarsi fuori dall’intervento, sono, quindi, fattispecie molto diverse che si riscontrano anche in casi meno cruenti.

Non solo nei casi di cronaca nera

L’apatia e il non intervento giocano un ruolo anche in altri contesti, nell’intraprendere qualsiasi iniziativa. Nel dubbio se rendersi disponibili al volontariato, per esempio, a volte scatta un’automatica assoluzione e autoesclusione, nel convincimento che ci siano altre persone a occuparsene. Anche in alcune testimonianze di fede, si può rischiare un profilo tiepido che riduce la partecipazione e l’intensità della stessa, delegando ad altri. Il richiamo, in proposito, di Papa Francesco è Il Signore rimprovera quella tranquillità ‘senza consistenza’ dei tiepidi. Una ‘tranquillità che inganna’”.

Uno stato di minorità perenne

Il filosofo Immanuel Kant parlava di stato di minorità perenne (non più legato a questioni anagrafiche) per alcuni soggetti che scelgono di non pensare o attivarsi, contando sul fatto che ci sia sempre qualche sostituto pronto a curarsene. Lo sceneggiatore statunitense Bodie Thoene ha avuto modo di precisareL’apatia è il guanto in cui il diavolo infila la sua mano”. 

I due vertici opposti dello stesso fenomeno

È opportuno stimare i due vertici opposti del fenomeno. L’ultimo report pubblicato dall’Istat, riguardo gli autori e le vittime di omicidio in Italia (pubblicato il 5 febbraio scorso e riferito al biennio 2018-19), visibile al link https://www.istat.it/it/files//2021/02/Report-Vittime-omicidio_2019.pdf, precisa “Nel 2019 gli omicidi sono 315 (345 nel 2018): 204 uomini e 111 donne. Il 19,7% (di cui 17,6% maschi e 23,4% femmine) è composto da vittime straniere. Gli omicidi sono in calo fin dagli anni Novanta, soprattutto quelli dovuti alla criminalità organizzata (29 nel 2019, il 9,2% del totale). In ambito familiare o affettivo aumentano invece le vittime: 150 nel 2019 (47,5% del totale); 93 vittime sono donne (l’83,8% del totale degli omicidi femminili). Nei procedimenti giudiziari crescono gli imputati per omicidio in ‘contesti relazionali’ (246 nel 2010, 271 nel 2018).[…] L’Italia è oggi uno dei Paesi più sicuri al mondo rispetto al rischio di essere vittime di omicidio volontario. Nel 2019 le Forze di polizia hanno registrato 315 omicidi (0,53 vittime per 100mila abitanti). […] Confrontando i dati attuali con quelli del 1991, anno di picco degli omicidi a partire dal quale è iniziato un trend discendente, la realtà è molto cambiata. Gli omicidi erano oltre 6 volte di più (1.917 contro gli attuali 315), con un tasso pari a 3,4 per 100mila abitanti. […] La distribuzione territoriale degli omicidi di uomini presenta forti differenze. Nel 2019 la media nazionale è di 0,70 omicidi volontari per 100mila residenti: il Nord e il Centro si collocano ampiamente sotto tale media, mentre avviene l’opposto per il Mezzogiorno. Più nel dettaglio, la ripartizione in cui si verificano meno omicidi di uomini in rapporto alla popolazione è il Nord-est (0,40 omicidi di uomini per 100mila residenti maschi), seguita dal Centro e dal Nord-ovest (0,51 e 0,59 rispettivamente)”.

L’Italia, quindi, si dimostra un Paese non particolarmente violento. In relazione alle dinamiche del bystander effect, va anche ricordata la massiccia presenza del volontariato, attivo sul territorio e non certo spettatore degli eventi. IL CSV (Centri di servizio per il volontariato), lo scorso 27 settembre, al link https://www.csvnet.it/csv/storia/144-notizie/1226-quanto-vale-il-volontariato-in-italia-istat-csvnet-e-fvp-lanciano-i-dati-della-prima-sperimentazione-italiana-del-manuale-ilo-sul-lavoro-volontario, ha ricordato i numeri “6,63 milioni di volontari stimati operativi, di cui 4,14 attivi in organizzazioni. […] una percentuale molto più alta di volontari fra chi ha conseguito un titolo di studio più alto come la laurea (22,1%) e inferiore fra chi ha la licenza elementare (6,1%). Così come racconta di un volontariato sempre più appannaggio di chi ha situazioni occupazionali stabili (14,8%) e chi vive in famiglie agiate (23,4%). Il report evidenzia anche il ruolo fondamentale di donne e anziani nelle attività di aiuto non organizzate e quantifica in 19 il monte ore (calcolate su quattro settimane) che in media gli italiani svolgono in volontariato. Coincidono, se quantificate con il criterio del monte ore lavorativo, con circa 875.000 unità occupate a tempo pieno”.

L’apatia nei ragazzi

L’apatia degli astanti si genera per indifferenza, apatia, indolenza. Fra i casi più diffusi e, purtroppo, in aumento, vi è quello legato al bullismo. In tal caso, si assiste alla non ingerenza dei ragazzi e di tutte le persone che assistono alla scena. Il fenomeno si estende dal luogo fisico in cui avviene la violenza a quello virtuale/digitale, legato alla diffusione, indisturbata, dei filmati che documentano le vessazioni. Alcune voci contrarie, sulla base di riscontri concreti, smentiscono i punti cardine dell’effetto spettatore, considerandolo un risultato da laboratorio e sconfessato dalla realtà, in cui, invece, quasi tutti gli astanti intervengono. L’altra riserva è di tipo quantitativo: maggiore è il numero degli astanti, minore è il presunto “scarico” dell’intervento o dell’azione bensì ci si troverebbe a disporre di un alto numero di volontari attivi.

Riflettere su quanto questo comportamento sia dannoso

L’aver isolato, e definito, questo comportamento “naturale” dell’essere umano, deve aiutare a riflettere quanto sia insensato e dannoso poiché comporta un’inazione nei confronti del più debole e del più bisognoso d’aiuto. L’apatia e l’esser tiepidi producono conseguenze personali e sociali. Occorre smascherare tali calamità, metterle a nudo in un esame di coscienza e tradurle, innanzitutto, nell’atto concreto individuale, senza condizionamenti e indipendentemente dalla valutazione del comportamento attivo degli altri.