Cosa ci insegna l’Hiv sul Sars-Cov-2

L’avvento della COVID-19 è stato uno tsunami, che nella “prima ondata” ha sommerso le capacità del Servizio Sanitario Nazionale di fronteggiare adeguatamente l’impatto di tutte le “altre” patologie. Così i reparti di oncologia, di medicina e anche chirurgici hanno dovuto improvvisamente essere convertiti in reparti COVID. Per non parlare delle attività ambulatoriali dedicate alla assistenza delle malattie croniche, che sono state progressivamente ridotte o dismesse. E i pazienti stessi si sono allontanati dagli ospedali per tema di contagio e pertanto hanno trascurato le visite periodiche e le cure.

I danni maggiori si sono registrati per le malattie tempo-dipendenti (es. ictus cerebri e infarto miocardico) e, per quanto concerne HIV/AIDS, hanno sofferto gli screening nelle popolazioni a rischio, che sono stati trascurati e le terapie antiretrovirali, che sono state saltuariamente monitorate (per lo più per telefono), il che ha comportato la riaccensione di cariche virali già azzerate nel 95% dei casi. La pandemia HIV/AIDS non è certo sparita con l’avvento della COVID e tuttora impressiona per le sue dimensioni. Nel mondo il totale dei casi di HIV è stimato pari a 37.7 milioni (1.7 milioni sono bambini). Di questi oltre il 70% è in Africa: 25.4 milioni, 3.7 milioni nelle Americhe, 3.7 milioni nel Sud Est Asiatico, 2.6 milioni in Europa, 1.9 milioni nella Regione del Pacifico Occidentale e 420.000 nella Regione del Mediterraneo Orientale.

Per quanto riguarda i nuovi casi di HIV, si stimano circa 1.5 milioni nel 2020: di questi ben 880.000 sono appannaggio dell’Africa, con 460.000 morti, 300.000 del Sud Est Asiatico (81.000 morti), 150.000 delle Americhe (45.000 morti), 170.000 dell’Europa (40.000 morti), 120.000 del Pacifico Occidentale (41.000 morti) e 41.000 del Mediterraneo Orientale (17.000 morti). Pur registrandosi un declino del 31% dei nuovi casi rispetto al 2010, cui fa riscontro un declino del 47% dei nuovi morti, questi numeri testimoniano come la pandemia sia tuttora attiva. Focalizzando lo sguardo sull’Europa (UE, EEA) si rileva una sproporzione di 4:1 delle casistiche dell’Est rispetto al Centro e all’Ovest dove il declino è particolarmente accentuato.

E per quanto riguarda l’Italia, qual è la situazione? Dal 2010 al 2019 il numero di nuovi casi di infezione da HIV è stato cumulativamente di 49.882, passando da 4.024 casi con un tasso per 100.000 di 6.8 a 2.531 casi e un tasso di 4.2 (inferiore alla media europea, che è di 4.9). Il fattore di rischio prevalente, che si mantiene preminente (38.7%) per MSM in Europa, per HIV in Italia è per la prima volta nel 2020 paritetico fra trasmissione omosessuale maschile e eterosessuale uomo-donna (42%). La trasmissione per droghe in vena è generalmente in netto declino ma proporzionalmente resta più elevata in Italia (9%) rispetto alla media europea (4%). La casistica fra migranti è in forte ascesa (44%) in Europa, soprattutto per persone provenienti dall’Africa Sub-Sahariana e dal Sud Est Asiatico mentre in Italia nel 2020 è decisamente inferiore, rappresentata non oltre il 25% e in netto declino.

Mediamente in Italia la diagnosi di infezione da HIV è più tardiva con circa il 40% dei casi diagnosticati con CD4<200 o già in presenza di AIDS (AIDS presenters) e il dato si connota come il più sfavorevole sotto il profilo assistenziale. Questa situazione di allarme è imputabile al deficit delle attività di screening: solo l’8% dei sieropositivi è stato rivelato da screening, la più parte dall’insorgenza di sintomi o di manifestazioni di patologie AIDS-correlate. Per quanto si riferisce all’AIDS si registrano cumulativamente 71.204 casi, mentre i nuovi casi sono passati da 1.149 (1.9% per 100.000) nel 2010 a 571 (pari a un tasso per 100.000 di 0.9%) nel 2020. Il fattore di trasmissione più frequente è negli anni recenti di gran lunga il rischio eterosessuale, quindi omosessuale maschile e, distanziato, l’uso di droghe in vena. I morti per AIDS sono stati cumulativamente 45.861, passando da 1.149 (1.9% per 100.000) a 571 (0.9% per 100.000) fra il 2010 e il 2017.

Per inciso è importante constatare che dopo il 2017 non sono più stati segnalati i dati di letalità e che l’ultimo bollettino dell’ISS si è fermato ai dati del 2019, in non casuale coincidenza con l’avvento del COVID-19, che ha polarizzato l’attenzione. Spicca anche per l’AIDS il dato che oltre il 50% dei casi sono stati diagnosticati oltre 6 mesi dal riscontro di sieropositività HIV, che il 70% ignoravano di essere sieropositivi per HIV e il 73% conseguentemente è arrivato all’AIDS non in terapia anti-retrovirale. Per quanto concerne il riferimento agli obiettivi 90+90+90 la diagnosi, nella popolazione HIV, è ottenuta nell’84% dei casi, l’87% di questi sono in trattamento e il 90% di questi sono virologicamente soppressi. Globalmente il 73% dei sieropositivi è in trattamento anti-retrovirale (ART) e la trasmissione materno-fetale (MTCT) è ben controllata nell’85%.

L’interruzione dei servizi per ART causata da COVID-19 è del 20% in Africa e nelle Americhe, del 10% nel Sud Est Asiatico e nel Pacifico Occidentale, del 5% nel Mediterraneo Orientale e nullo in Europa. Ma anche in Europa registriamo circa il 5% di fallimenti virologici legati all’interruzione di visite regolari presso servizi che, pur attivi, si affidano per lo più a monitoraggio a distanza, tramite telemedicina. Per quanto concerne la COVID, è paradossale che mentre il “terzo mondo” attende con ansia il vaccino (che tuttora è appannaggio quasi esclusivo dell’Occidente industrializzato), da noi sono fiorenti i movimenti no-vax o comunque di “esitanti”, renitenti al vaccino. Fra le motivazioni addotte le più gettonate sostengono che la Covid possa essere curata a domicilio senza necessità di vaccino.

A parte il fatto che, da che mondo è mondo, è meglio prevenire che curare, a parte il dato che la vaccinazione nei fatti ha piegato la curva epidemica e che oltre il 90% dei decessi e dei ricoveri in terapia intensiva riguarda i non vaccinati, è paradossale solo pensare di affidarsi a farmaci antivirali per combattere un’epidemia. Certamente potremo avere i farmaci, anzi già sono alla vista antivirali orali, e pertanto a somministrazione domiciliare. Il problema è che questi non costeranno 10/20 euro ma centinaia di euro per singolo ciclo di cura. E’ in questo modo che si intende condurre la lotta contro gli spropositati guadagni di Big Pharma? Ben vengano gli antivirali ma questi saranno utili solo per quella piccola frazione di popolazione (il 5-10%) che non risponde al vaccino o che non può sottoporsi al vaccino per ragioni mediche.

Nel caso dell’HIV/AIDS purtroppo non abbiamo tuttora un vaccino, la prevenzione si basa su “raccomandazioni” di educazione sessuale (ABC, ossia Abstinence, Behaviour, Condom) e sulla chemioprofilassi (PrEP, ossia Pre Exposure Prophylaxys). La terapia si basa, come si è detto,  su regimi “soppressivi” STR efficaci e ben tollerati. Ma sia nell’uno che nell’altro caso il presupposto è che questi farmaci vengano somministrati long-life, sia in terapia che in profilassi, quotidianamente, per via orale. La ricerca farmacologica si sta orientando ad alleviare questo peso dalla quotidianità proponendo formulazioni long-acting, mensili o bimensili, per via iniettiva. Questi regimi assicurano la soppressione del virus in terapia e salvaguardano dal contagio se assunti in via preventiva. Questo può essere considerato un traguardo tutto sommato soddisfacente: sia per il soggetto affetto, in quanto non dissimile da un trattamento per una qualsiasi patologia cronica (ad esempio l’ipertensione), sia per l’industria farmaceutica, rappresentando un reddito ragguardevole e costante.

L’avvento della COVID-19 non ha sconvolto questo scenario più che tanto. L’impatto di SARS-CoV-2 sui soggetti sieropositivi HIV mantenuti in buona situazione immunitaria (conta dei linfociti CD4+ >350 c/ml) non è sostanzialmente dissimile rispetto ai soggetti sieronegativi. Unica turbativa portata dalla Covid è il sovraccarico per il SSN che rende più problematica la regolarità del monitoraggio della terapia antiretrovirale (ART) con il rischio di temporanei fallimenti virologici, in Italia valutati nell’ordine del 3-5%. E tuttavia l’esperienza della Covid ha suscitato nuove ambizioni, rivolte non più solo al controllo dell’infezione da HIV ma all’obiettivo finora frustrato della “eradicazione” del virus e della pandemia, quale può ottenersi solo con il vaccino. Le tecnologie basate su piattaforma RNA e DNA fanno intravedere questo traguardo non più impossibile ma, forse, finalmente alla portata. In particolare hanno dato impulso a ricerche innovative rivolte ad ottenere vaccini che suscitino anticorpi diretti contro strutture non variabili del genoma di HIV e quindi non soggette a mutazioni. La tumultuosa evoluzione del progresso scientifico e tecnologico induce all’ottimismo della ragione e a credere che forse il “miracolo” del vaccino anti-Covid possa ripetersi anche per l’HIV. Così come per future pandemie, che fatalmente intravediamo dietro l’angolo.