La casa famiglia: un atto di giustizia nato dal cuore di don Oreste Benzi

L'intervista di Interris.it a Luca Russo, membro dell'Apg23, in occasione del 50esimo anniversario dell'apertura della prima casa famiglia

Foto ©Apg23

“In un tempo in cui è difficile che una persona si accorga dell’altro, perché spesso siamo segragati in un nostro individualismo e non riusciamo a vedere al di là del nostro metro quadrato, posso dire che i giovani che vengono a fare esperienza nelle nostre case spesso rimangono smarriti dal senso di gioia, allegria e ironia che si respira. Spero che fra cinquant’anni le case famiglia non ci siano più perché vorrebbe dire che non ci sono più fragili che dobbiamo accogliere, è la preghiera che ognuno fa anche se credo che sia molto difficile. La casa famiglia è una bellissima profezia che ha senso solo se resta nella gioia”. A parlare a Interris.it è Luca Russo, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, scelta di vita che condivide con la moglie Laura ad Assisi, terra di San Francesco. Da venticinque anni la coppia vive la vocazione dell’associazione fondata dal Servo di Dio don Oreste Benzi e sono papà e mamma di una casa famiglia: oltre ad avere due figlie naturali, sono genitori di altre persone, alcune delle quali affette da disbilità gravi. Inoltre, nella loro casa, vivono i genitori di Luca.

Foto ©Apg23

50 anni fa nasceva la prima casa famiglia

Era il 3 luglio del 1973 quando la prima casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII apriva i suoi battenti a Coriano (RN), sulle colline romagnole, grazie ad una giovane, Ida Branducci, che accettò la proposta di don Oreste di dare una famiglia agli ultimi. Il sacerdote dalla tonaca lisa, infatti, l’estate dell’anno prima, accettò l’invito di un panettiere che lo portò a “vedere come muore un cristiano”: si ritrovò a visitare il tugurio semi-abbandonato dove Marino, nella sua estrema fragilità viveva in condizioni gravemente disumane (La storia è raccontata fra gli altri nel libro Don Oreste benzi, amare sempre). Aveva scontato la pena di un anno e mezzo di carcere per aver rubato una bicicletta.

Il primo accolto delle case famiglia dell’Apg23

Marino Catena divenne così il primo accolto della casa famiglia di Coriano. A 50 anni di distanza vive ancora in quella struttura che, dal 2018, è una Comunità Educante con i Carcerati ed accoglie una ventina di persone, inserite nei programmi di recupero alternativi alla detenzione. Realizza l’intenzione di Don Benzi: “L’uomo non è il suo errore: Dobbiamo passare dalla certezza della pena alla certezza del recupero, perché un uomo recuperato non è più pericoloso”. Marino vive qui ancora oggi ed è accudito da persone che nella condivisione con lui cercano un rimedio ai propri errori.

Marino Catena, il primo accolto in una casa famiglia e il vescovo Nicolò Anselmi. Foto ©Apg23

Le case famiglia in Italia e nel mondo

La seconda casa famiglia venne inaugurata dopo solo un mese e mezzo, il 15 agosto del 1973 nella parrocchia della Grotta Rossa di Rimini. L’11 novembre nacque la terza casa famiglia, a Sant’Arcangelo di Romagna (RN). Oggi le case famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII sono in totale 247, di cui 209 in Italia. Fra quelle all’estero 6 sono in Bolivia, 4 in Russia.

L’intervista

Interris.it ha intervistato Luca Russo, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII e papà di casa famiglia per conoscere meglio queste realtà nate dal cuore e dal desiderio di giustizia del Servo di Dio don Oreste Benzi.

Luca Russo, con la sua grande famiglia

Luca, qual è l’aspetto più importante di una casa famiglia?

“Il cuore della casa famiglia, ti parlo della mia esperienza personale, è quello di restare uniti sia nella vita coniugale sia alla persona che si accoglie. A volte, si corre il rischio di professionalizzarsi, cioè di credere che stiamo svolgendo una professione, invece abbiamo bisogno di ricordare che stiamo vivendo una vera e propria profezia: questo lo facciamo nel momento in cui contiuiamo a guardare la persona o il bambino accolto e riconosciamo loro la dignità che meritano”.

Qual è il “compito” della casa famiglia?

“Quello di restituire dignità alle persone. Questo era il sogno di don Oreste: che nessuno rimanesse orfano. La casa famiglia continua, ancora oggi, a restituire alle persone quella dignità che qualcuno – o più semplicemente il sistema o l’abbandono della famiglia – gli avevano tolto. Restituire la dignità, in molti casi, vuol dire restituire a quel bambino, a quell’anziano, a quel disabile il suo essere persona. Molti di coloro che sono stati accolti nelle nostre case, sono arrivati polverizzati nella oro dignità: ogni storia di abbandono è una storia di distruzione della persona. Chi viene abbandonato pensa di non essere degno di essere amato; questo destruttura, impoverisce l’essere umano, non sa più chi è”.

Quindi come aiutate il bambino o l’anziano o il giovane che arriva nella vostra struttura?

“L’unico modo per ridare loro la dignità è assicurare giorno per giorno il bene che chiedono. La casa famiglia è se stessa nel momento in cui resta attenta alla dignità della persona, ma anche nel momento in cui la coppia che accoglie continua a credere nella profezia di essere una famiglia ha sempre posto in casa, che si interroga sulla possibilità di organizzare le camere diversamente in modo da poter aggiungere un letto in più”.

1983 – Anniversario dell’apertura della casa di Coriano. Foto ©Apg23

La casa famiglia è nata dal cuore di don Oreste. Secondo te come è arrivato a questa intuizione?

“Don Oreste, secondo me, è stato animato da due grosse provocazioni: la prima è la compassione. Un aspetto che lui ha coltivato nella sua vita di persona e ancor più come uomo di Dio. Don Oreste ha avuto realmente compassione delle persone. La compassione non è però da confondere con la commisserazione, non si tratta di un atto pietistico, di buonismo sdolcinato. In realtà la compassione, e questo è il secondo aspetto, è un atto di giustizia. Don Oreste era animato dal desiderio di costruire spazi di giustizia all’interno della società partendo dalla compassione delle persone. La casa famiglia, lui lo ripeteva spesso, è un atto di giustizia perché riorganizza la società nel modo in cui è stata pensata da Dio, dove non è ammissibile pensare che ci possano essere bambini, anziani, fragili senza il cuore di una famiglia. Per don Oreste era insopportabile pensare che ci fossero dei bambini senza un cuore dove sentirsi amati. E’ per questo motivo che don Oreste parlava della casa famiglia come di un luogo capace di rigenerare il tessuto sociale. Questa è la compassione che si unisce alla giustizia. Don Oreste definiva la casa famiglia la pupilla dell’occhio della Comunità Papa Giovanni XXIII”.

Foto ©Apg23

Tu e tua moglie Laura siete mamma e papà di una casa famiglia: qual è la cosa più difficile e quella più bella che vi siete trovati ad affrontare?

“Parto da quella più difficile: non farsi risucchiare dall’angoscia, a volte dal delirio, delle persone che andavamo ad accogliere. A volte c’era questa tentazione di cadere nello stesso baratro nel quale la persona che avevamo accolto si trovata. L’aspetto più bello è la vita in festa, la casa famiglia è piena di gioia che non vuole mettere da parte il sacrificio e le rinunce che chiunque si trova ad affrontare. Quando tutti i giorni della nostra vita sono ricchi di senso, nonostante le difficoltà, questa è profezia. La profezia non è un gesto isolato, ma una quotidianità che punta e si gioca sulla persone più deboli, si cerca di dare una famiglia a chi non ce l’ha, come diceva sempre don Benzi”.