Sono in tutto cinquantaquattro gli Stati del continente africano. Nemmeno l’Asia arriva a un numero tale. E, al momento, 48 di loro stanno già facendo i conti con la diffusione del coronavirus. Un numero progressivo, sempre più allarmante, che mette a nudo, ancora una volta, tutti i timori legati alla possibile invasione del Covid-19 al di là del Mediterraneo, da parte di un Occidente già di per sé chiamato a una prova estrema. Ora come ora, però, con la progressione del virus pressoché galoppante in numerose aree del Pianeta, l’interrogativo sulla possibile esplosione del contagio nei Paesi africani rappresenta forse l’incognita più grave: i numeri forniti dall’Oms, per il momento, di oltre 5 mila contagi diffusi su tutto il continente in modo disomogeneo (maggioranza dei casi in Sudafrica ma numeri elevati anche in Egitto, Algeria e Marocco), con un bilancio provvisorio di 170 decessi e 370 guarigioni. Dati investiti dell’ufficialità ma che, da più parti, vengono letti con prudenza, soprattutto pensando a tutti quei Paesi che, per le condizioni estreme del loro tessuto sociale, a una tale emergenza non possono far fronte. O comunque, come spiegato a Interris.it da Enrico Casale, responsabile della sezione news di Africa Rivista, senza gli strumenti necessari a tamponarla.

Monitoraggio continuo

Sulla reale situazione dell’epidemia Covid-19 in Africa si conosce poco. Quasi certamente, i numeri giunti fin qui potrebbero rappresentare la parte superficiale di un contagio che, dovesse replicare nel continente i numeri visti in Europa, in Cina o negli Stati Uniti, andrebbe ad assestare forse il colpo peggiore per una terra già di per sé in estrema difficoltà. Il coronavirus, infatti, raggiunge il continente aggiungendo un immenso carico di sofferenze a un contesto che ha già guardato negli occhi (e guarda tuttora) sindromi, malattie e squarci di sofferenza portati da conflitti, povertà e fame. Per questo, al netto di un monitoraggio costante e per quanto possibile approfondito, il quadro africano resta complesso e sensibile a ogni variazione, nei Paesi della fascia subsahariana naturalmente, ma anche in Stati (come quelli della fascia mediterranea) dove i sistemi sanitari sono più strutturati.

Allarme in Sudafrica

Nemmeno un Paese come il Sudafrica fa eccezione, stretto nella morsa di un’epidemia che, se da un lato è stata assorbita dalla popolazione sul modello europeo, dall’altra vede emergere tutte le contraddizioni tipiche di terre dove la disparità sociale è tutt’altro che ridotta: “In Sudafrica il problema è duplice – ha spiegato Casale -. Il punto è che la popolazione, non quella ricca ma di reddito basso o bassissimo, assieme agli immigrati, che sono il 7,5% della popolazione sudafricana, sta soffrendo molto il lockdown. Si tratta di persone che vivono con poco più di 2 euro al giorno, e per vivere devono uscire tutti i giorni, guadagnandosi il pane con il piccolo commercio e i lavori informali (compreso quello domestico)… Questo problema è tipico del Sudafrica ma c’è un po’ in tutti i Paesi dell’Africa subsahariana. La popolazione molto povera, che vive di giorno in giorno, ha dei grossi problemi a mantenersi se è costretta in casa”.

Il caso Congo

In sostanza, al di là dell’allarme per la tenuta sanitaria di un continente che, in molti casi, deficita nelle più basilari norme di salvaguardia medica, assume rilevanza la componente sociale che, senza alcun paradosso, potrebbe indirettamente favorire la diffusione di un virus: “Come si fa – ha spiegato ancora Casale – a mantenere le misure restrittive e igieniche in posti come le township sudafricane, in Kenya o nella Repubblica Democratica del Congo? In molti vivono in cinque in una baracca, a venti centimetri da un’altra baracca dove ne vivono altre cinque. Se c’è un contagiato il virus si diffonde ovunque”. Il punto, ancora una volta, è il quadro di estrema gravità sanitaria ed economica con cui l’Africa ha storicamente fatto i conti: “Pensiamo  a una situazione come quella del Congo Kinshasha che, negli ultimi anni, ha dovuto far fronte a una delle più devastanti epidemie di morbillo, che ha ucciso molti bambini; al colera, che ha colpito circa 30 mila persone; l’ebola, che ha colpito soprattutto nelle regioni orientali, un’epidemia chiusa ma di cui c’è sempre il terrore che esca un nuovo focolaio; la malaria, che è diffusissima non solo nella RdC ma in tutta l’Africa subsahariana”.

Sanità, rischio collasso

Decisamente alta l’attenzione sui sistemi sanitari africani, costretti a far fronte a emergenze quotidiane in molte parti del continente e, anche per questo, perennemente in bilico sull’orlo della crisi: “In molte delle costituzioni dell’Africa subsahariana, il diritto alla salute è garantito, o dovrebbe esserlo, a tutta la popolazione. Nei fatti non è così: chi viene ricoverato deve pagare il medico, portarsi medicine, bende, siringhe, lenzuola… In più, questi Paesi hanno basse entrate e quindi non riescono a investire sui sistemi sanitari né su una rete di strutture sanitarie (medico di base, pediatra, presidi). Niente di strano che un’epidemia in grado di mettere a dura prova il comparto medico europeo in Africa faccia ancora più paura: “Ad esempio – ha detto ancora Casale – ci sono stati i primi casi in Guinea Bissau, un Paese poverissimo che non ha nemmeno un posto in terapia intensiva. Dovesse esserci una diffusione massiccia di questo virus, non ci sarebbero strutture in grado di aiutare la popolazione. Stessa cosa in Somalia, un Paese in guerra da quasi trent’anni che non ha più un sistema sanitario”.

Sofferenza comune

Un dramma nel dramma, che vede ancora una volta l’Africa scoprire il fianco a una possibile, devastante crisi sanitaria. In una realtà fatta di piccoli e grandi contesti, diversi fra loro ma accomunati da un filo rosso che lega il continente nelle spire dell’emergenza continua. E non solo sul piano della salute, ma anche per gli effetti dei politiche turbolente, fin troppe volte sfociate nella dittatura, nonché di secoli di sfruttamento: “L’Africa, in caso di esplosione del contagio, verrebbe messa in ginocchio, così come accadde per l’ebola o la malaria“. Uno scenario terrificante ma che, al di là del Mediterraneo, rende il coronavirus solo l’ennesima tragica variabile in un quadro di comune sofferenza.