11 settembre 2001: vent’anni fa l’attacco al cuore dell’America

Le vittime furono 2.753. Nel ventesimo anniversario degli attacchi dell'11 settembre sul suolo americano, In Terris ha intervistato Giampiero Gramaglia, giornalista e consigliere scientifico dell'Istituto affari internazionali

A vent’anni dagli attacchi che portarono a “livello zero” i più famosi grattacieli del World Trade Center, le Torri gemelle, ridotti un cumulo di macerie e rovine da cui si alzava un fumo nero, si sta ancora procedendo all’identificazione delle 2.753 vittime. Nel mentre, a Kabul, in Afghanistan, sono tornati i talebani, lì dov’erano stati prima dell’intervento americano scaturito proprio da quanto successo quella mattina di inizio settembre. Venti anni che in una parte del mondo in qualche modo durano ancora, restano nel presente, e in un’altra sembrano già passato.

Nel ventesimo anniversario degli attacchi dell’11 settembre sul suolo americano, In Terris ha intervistato Giampiero Gramaglia, giornalista di lungo corso, già responsabile degli uffici dell’ANSA nel Nord America e poi direttore responsabile dell’Agenzia, consigliere scientifico dell’Istituto affari internazionali, direttore dei corsi della scuola di giornalismo di Urbino.

L’intervista

Che cos’è successo negli Stati Uniti la mattina dell’11 settembre 2001?

“Quello che nessun americano aveva mai pensato fosse possibile, o quello che tutti gli americani avevano dimenticato fosse possibile: gli Stati Uniti furono attaccati sul loro territorio, un po’ come avvenne il 7 dicembre 1941 a Pearl Harbor. Ma questa volta l’attacco arrivò al cuore dell’America: non una base alle Hawaii, ma la città simbolo e la capitale federale, New York e Washington, rispettivamente i simboli del potere economico-finanziario, il World Trade Center, e del potere politico-militare, il Pentagono e forse il Campidoglio se l’aereo caduto in Pennsylvania fosse andato a segno come gli altri”.

Che ricordo ha di quel momento? Cosa ha fatto?

“Ero al lavoro, nell’ufficio dell’ANSA di Washington, a due isolati dalla Casa Bianca: ero al telefono con quello di New York. Stavamo facendo il programma di lavoro della giornata, anzi avevamo appena finito di consultarci e stavo preparando la nota da mandare a Roma, alla sede centrale. Ero un po’ in ansia, perché la sera prima nostra figlia era partita da Washington per Roma e aspettavamo la telefonata del “Sono a casa”. Quando la Cnn portò la prima notizia, un aereo si era schiantato contro una delle Torri Gemelle, e la prima immagine – lontana e sfocata, un filo di fumo che usciva dalla torre colpita – non si ebbe subito percezione della dimensione del fatto: poteva essere un aereo da turismo, poteva essere un incidente. Il secondo schianto, in diretta televisiva, alle 09.10, le 15.10 in Italia, diede la certezza dell’attacco e a cominciò a delinearne le dimensioni”.

Che mondo è “nato” sulla scia di quegli eventi?

“Purtroppo, non è nato un mondo nuovo, come gli eventi di questi giorni mostrano con fin troppa chiarezza; e tanto meno un mondo migliore. In vent’anni abbiamo avuto la crisi finanziaria del 2008 e i suoi strascichi; c’è stata la Sars e c’è ancora la pandemia; la globalizzazione guidata dal profitto ha moltiplicato le iniquità e ampliato le disuguaglianze; il terrorismo ha colpito ancora e ovunque, dalla Spagna alla Gran Bretagna, dalla Francia al Belgio alla Germania, in tutta l’Africa sahariana e subsahariana, a Bali e in Indonesia e in Bangladesh; in Norvegia e in Nuova Zelanda. “Nulla sarà mai più come prima”, si disse allora, come si dice sempre davanti a un evento campale: parole che consolano e danno speranza, ma sempre lontane dalla realtà”.

Com’è cambiata la vita degli occidentali?

“Soprattutto la vita degli americani, perché noi europei ci eravamo già misurati con il terrorismo e ci eravamo già assuefatti a controlli e precauzioni. Gli americani, invece, hanno dovuto farci i conti allora: procedure negli aeroporti e sugli aerei cambiate, documenti da esibire a ogni piè sospinto, metal detector all’ingresso degli edifici pubblici. Ma il fatto nuovo è stato il sentirsi costantemente sul chi vive; diffidenti del vicino di posto sull’autobus, del compagno di studio o di lavoro; disposti ad affrontare “scontri di civiltà” e “guerre di religione”, ciechi al fatto che il dio che i monoteisti adorano non può che essere lo stesso”.

Quali sono state le evoluzioni del terrorismo in questi venti anni?

“Non c’è un terrorismo, ce ne sono tanti, nel tempo e nello spazio. E’ terrorismo il kamikaze che si fa esplodere in una folla, ma è terrorismo anche la bomba che uccide più civili che nemici in armi; e ogni scheggia di quella bomba fa nascere nuovi terroristi. I terrorismi non si soppiantano l’un l’altro, ma coesistono: quello del conflitto tra israeliani e palestinesi e quello dell’integralismo musulmano anti-occidentale; quello dei suprematisti alla Breivik e quello dei tagliagole dell’Isis; quello pianificato e strutturato alla al Qaida prima maniera e quello dei lupi solitari e delle cellule isolate”.

L’America svolge ancora il ruolo del “poliziotto globale”?

“Non lo vuole più essere. E mi pare una cosa positiva. Oltretutto, in passato è stata più efficiente nel rimpiazzare democrazie con dittature –  vedi il Cile del 1973 – che non nell’esportare la democrazia. Quanto questo atteggiamento durerà, è impossibile dirlo: gli Stati Uniti alternano ciclicamente fasi d’intervenzionismo a fasi di isolazionismo”.

Che ruolo e peso avranno adesso gli Usa nella regione?

“Dipende da loro, ma non solo da loro. Nell’immediato, certo, la loro influenza sarà ridotta e la loro credibilità come alleati sarà intaccata. Ma bisogna vedere come si muoveranno, se si muoveranno, Cina e Russia e come i vicini dell’Afghanistan interagiranno fra di loro e con interlocutori esterni. E bisogna pure vedere come si comporteranno i talebani, se resteranno fedeli al loro modello fine secolo scorso o se adotteranno decisioni più inclusive e meno drastiche”.

 Come si è comportata l’Europa in questi vent’anni?

“L’Unione europea è stata succube e prona alle decisioni statunitensi. Anche quando il disastro appariva imminente e inevitabile, come dopo la firma dell’accordo che era una resa tra i talebani e l’Amministrazione Trump e, più recentemente, una volta fissata la data per il ritiro, l’Ue non ha saputo o voluto assumere una posizione autonoma. La rotta di Kabul è anche sua: una Caporetto condivisa da America ed Europa”.

Quali sono stati i risultati della guerra al terrore e quali errori sono stati commessi?

“Al Qaida è indebolito, l’Isis pure: sono elementi incoraggianti. Ma la lunga guerra ha logorato più l’Occidente che i talebani; e lascia ovunque schegge di organizzazioni terroristiche che possono ancora colpire e fare proseliti. Soprattutto la lunga guerra, come tutte le guerre, ha scavato fossati, non ha costruito ponti, fra le genti, le ideologie, le religioni. E questo è il retaggio negativo più grosso e più pesante, al di là degli errori di intelligence commessi, fin da prima dell’11 Settembre, ché se no l’11 settembre non ci sarebbe stato, e degli eccessi di reazione compiuti, dagli Usa e anche da noi, a partire dal Patriot Act e da tutte le violazioni dei diritti umani e della legge comune che ne derivarono – Guantanamo, Abu Graib, le extraordinary renditions, e via discorrendo – “.

 Che Afghanistan ci ritroviamo oggi, con i talebani di nuovo a Kabul due decenni dopo?

“Sembra il ritorno alla casella di partenza nel “gioco dell’oca” degli errori e degli orrori, nel risiko della geo-politica. E in effetti lo è. Ma può darsi che questi vent’anni qualche seme lo abbiano gettato nella società afghana, almeno in quella urbana. Gli stessi talebani non sono più quelli del periodo 1995-2001 ma sono i loro figli: non c’è da fidarsi a priori, ma c’è da metterli alla prova dei fatti. Anche perché i talebani non sono un’escrescenza malignamente cresciuta sulla società afghana: sono larga parte dell’Afghanistan e degli afghani, del loro modo di credere, pensare, agire, altrimenti non avrebbero attraversato vent’anni di presenza militare straniera sempre “imbozzolati” nel contesto sociale ed etnico del loro Paese”.