SPRECHI D’ITALIA, SE L’ADDETTO ALLA MENSA SI MANGIA TUTTO

Negli Anni ’70 era un vizietto talmente di moda nelle caserme italiane da diventare uno dei leit-motiv dei filmetti di serie B dove il maresciallo furiere portava a casa “di tutto e di più” a spese dello Stato. Poi però, la coscienza civica crescente (e una serie di inchieste giudiziarie oltre che a leggi rinnovate) avevano ridefinito il concetto di servizio militare, riducendo chi si occupava del vettovagliamento a mero gestore dei soldi pubblici, che dunque andavano spesi con parsimonia e soprattutto rendicontati.

Ma l’Italia dei furbetti non smette mai di partorire nuove leve, e così nel Terzo millennio c’è anche chi si reinventa un antico modo di rubare ai cittadini, portandosi a casa di tutto: pasta, pomodori, prosciutti, sale, olio, vino, ecc. Un intero campionario di beni alimentari che finivano direttamente dalla dispensa della caserma alla tavola imbandita di qualche acquirente. E non parliamo di due olivette e un tozzo di pane, bensì di vettovagliamenti per corrispondenti 249.688,06 euro.

Cosa accadeva? Semplice: le quantità di derrate consegnate dalle ditte e introdotte in magazzino erano superiori a quelle ordinate dalla ditta; di conseguenza i generi alimentari che entravano in dispensa erano molti di più del fabbisogno del reparto per il confezionamento del vitto. Per far “pareggiare” cifre così evidentemente incongruenti, spesso venivano “taroccati” i registri, anche con semplici sbianchettature e correzioni a penna. Come se – arroganza del malaffare – fosse normale sbagliare in sequenza, per mesi.

Il maresciallo furiere, una volta “beccato”, ha ammesso di aver falsificato i registri ma non essendo stato possibile accertare né che avesse del cibo in più in un suo magazzino né che ne avesse tratto un beneficio monetario distraendo soldi dalle casse della caserma, se ne è dedotto – giuridicamente parlando – che non poteva essere portata avanti una causa per peculato militare aggravato (art. 215 del Codice penale militare), e dunque tutto è stato archiviato in sede penale.

Ma i giudici contabili hanno tenuto il punto, e si sono appellati all’art. 194 del Regio Decreto n.827 del 1924 per inchiodare il militare infedele alle proprie responsabilità: “Le mancanze, deteriorazioni o diminuzioni di denaro o cose mobili avvenute per causa di furto, di forza maggiore o di naturale deperimento, non sono ammesse a discarico degli agenti contabili se non si esibiscono le giustificazioni stabilite nei regolamenti”. Insomma, non potendo a distanza di anni definire che fine avessero fatto caciotte e cocomeri, hanno però chiesto ai responsabili del vettovagliamento le pezze d’appoggio che giustificassero il perché dai magazzini fossero spariti migliaia di generi alimentari. Ma nessuno aveva scritto nulla in merito, e dunque è scattata la condanna. Con questa impostazione, infatti, non serve la consistenza di un reato penale, e nemmeno che il giudice accerti la prova dell’esistenza del dolo o della colpa grave. Così con il maresciallo sono stati condannati (Sentenza n.51/2015, Sezione del Veneto), per altri circa 20 mila euro, un altro sottufficiale e un ufficiale per omesso controllo.

Abbiamo evitato di nominare il Corpo militare che ha subìto questo episodio per non appiccicare l’etichetta di furfanti a migliaia di militari onesti che servono il Paese con grande spirito di sacrificio. Ma concludiamo dando un’idea del volume di affari riconducibile ai danni erariali nella pubblica amministrazione. Il dato è recentissimo, fornito dalla Guardia di Finanza presentando il Rapporto annuale 2014: 11.626 persone segnalate, 2.275 interventi effettuati; danni riscontrati per 2.672.918.275 euro. Una cifra che scriviamo per esteso, così da rendere visibile la gravità della situazione: buttati al vento duemiliardiseicentosettantaduemilioninovecentodiciottomiladuecentosettantacinque euro. E poi ci chiediamo perché l’Italia va sempre peggio…