Delegato della Catalogna in Italia: “Ecco cosa chiediamo”

La storia insegna: spesso le rivoluzioni iniziano con uno sciopero generale. È per questo che in molti vedono nelle mobilitazioni che si stanno consumando nelle strade della Catalogna oggi, 3 ottobre 2017, il preludio di radicali cambiamenti.

Lo scontro tra il Governo autonomo catalano e lo Stato centrale spagnolo si è acuito sotto i riflettori della stampa internazionale. Le forze dell’ordine spagnole hanno sequestrato le schede per il referendum sulla secessione di domenica scorsa, hanno arrestato funzionari del governo locale a Barcellona e infine hanno fatto irruzione nei seggi, per stroncare con la forza una consultazione popolare che la Suprema Corte spagnola ha giudicato incostituzionale.

La tensione ora è alle stelle. I nazionalisti catalani spingono sull’acceleratore dell’indipendenza da Madrid e l’Europa si trova a fare i conti con la clamorosa ipotesi che possano ridefinirsi i confini degli Stati nel suo versante occidentale. In Terris ne ha parlato con Luca Bellizzi, delegato in Italia della Generalitat (il Governo autonomo catalano), italiano ma sposato con una donna catalana.

Dott. Bellizzi, partiamo dai numeri. Il 90% ha votato per l’indipendenza. Però si sono recati alle urne nemmeno 2,3milioni di elettori su circa 5,3milioni di aventi diritto. Siamo sicuri che la maggioranza dei catalani sia favorevole alla secessione?
Molte schede sono state confiscate, tanti seggi chiusi, il sistema informatico che gestisce il registro degli elettori ha subito per tutta la mattina di domenica degli attacchi informatici. E inoltre bisogna ricordare che la violenza usata da Guardia Civil e Policia National ha agito come deterrente nei confronti di tanti cittadini che sarebbero andati volentieri a votare in un ambiente pacifico. Le forze armate hanno fatto irruzione nei seggi alle 8.45, cioè prima che iniziasse il voto: si tratta di una tempistica che risponde alla precisa volontà politica di spaventare gli elettori ed allontanarli dai seggi.

Resta il fatto che il referendum di domenica scorsa non dimostra che la maggioranza dei catalani desideri l’indipendenza…
L’unico modo che abbiamo per verificare la volontà popolare è un referendum pacifico, al quale possano partecipare tutti. Un sondaggio del País ha evidenziato che l’82% della popolazione catalana vuole esprimersi liberamente su questo tema. Sicuramente tra costoro c’è anche un numero importante di catalani che è contrario all’indipendenza. Ma se il governo Rajoy continua a fare ostruzione, a non seguire esempi di altri Stati, come il Regno Unito che ha concesso un referendum alla Scozia o il Canada al Quebec, non potremo mai scoprire se esiste una maggioranza silenziosa contraria all’indipendenza oppure no.

Dietro la volontà di indipendenza di molti catalani, quanto influisce la componente identitaria, storico-culturale, e quanto quella meramente economica, considerando che la Catalogna contribuisce quasi al 20% del Pil spagnolo?
È un mix tra queste due componenti, alle quali si aggiungono poi altre questioni, ad esempio la reazione repressiva dello Stato spagnolo, di qualunque colore esso sia: situazioni simili di scontro le abbiamo avute anche con governi di sinistra nel recente passato. La data chiave dell’indipendentismo è il 2010, quando una sentenza del Tribunale costituzionale ha ridotto molti articoli dello Statuto d’autonomia approvato dal Governo catalano con larghissima maggioranza, dal Parlamento spagnolo, sostenuto dal voto del popolo catalano e firmato dal re Juan Carlos. Tuttavia una raccolta di firme del Partido Popular, avvenuta solo per alimentare un sentimento anti-catalano in Spagna, ha portato la questione in Tribunale, dove sono stati rimossi alcuni aspetti importanti dello Statuto: in particolare è stato tolto nel preambolo il passaggio nel quale la Catalogna si definiva una nazione. È così che ci fu la prima grande manifestazione, con un milione e mezzo di persone in strada, al motto di “Siamo una nazione, abbiamo il diritto a decidere”. Dal 2010 quello slogan è rimasto lo stesso.

Come è possibile che secoli di unità non abbiano scalfito le spinte secessioniste della Catalogna? La vostra Regione ha avuto un peso rilevante nell’ascesa della Spagna nel quadro geopolitico…
La Catalogna ha sempre voluto contribuire al processo di democratizzazione della Spagna, lo dimostrano i voti favorevoli dei partiti catalani all’ingresso nella Nato, nell’Unione europea e nell’Euro. Dall’altra parte, però, non c’è mai stata disponibilità al dialogo. Al di là degli aspetti storici, c’è un problema che la Spagna si è sempre rifiutata di affrontare: esiste un territorio, la Catalogna, che si definisce una nazione, che si scontra però con uno Stato che non si riconosce come plurinazionale.

Le istanze indipendentiste catalane vengono spesso collocate politicamente a sinistra. La bandiera catalana con la stella bianca a cinque punte sul triangolo blu indica una matrice progressista?
La Estelada è la bandiera indipendentista catalana, dal valore simbolico-politico. Ma la bandiera nella quale si identificano tutti i catalani è la Senyera. Questa sarebbe la bandiera nazionale della Catalogna indipendente. Il nostro è un progetto trasversale dal punto di vista politico: vi partecipano partiti dal centro-destra all’estrema sinistra.

Nel 2012 la Catalogna ha attraversato una crisi finanziaria, la stampa internazionale parlava di orlo del default. Ne siete usciti anche grazie all’aiuto di Madrid?
Aiuto è un termine che metterei tra virgolette. Ciò che arriva alle Regioni autonome è attinto a un fondo di liquidità alimentato anche grazie al consistente contributo dell’economia catalana. La Catalogna è la terza comunità autonoma come produttrice di ricchezza, ma nella ridistribuzione delle risorse da parte dello Stato cade al tredicesimo posto. Questa perdita di competitività – per tornare a una sua domanda precedente – muove parte della società catalana nella direzione dell’indipendenza.

Il presidente della Camera di Commercio americana in Spagna, Jaime Malet, ha detto che la Catalogna indipendente perderebbe molte multinazionali. Ed anche le agenzie di qualificazioni internazionali sottolineano i danni che avrebbe una Catalogna indipendente. Sono rischi che avete calcolato?
La Catalogna indipendente vuole rimanere nell’Unione europea, nell’Euro, nella zona Schengen: il nostro progetto non provocherà alcun terremoto politico o finanziario. C’è tutto l’interesse internazionale a tutelare un’economia come quella catalana: aperta, dinamica, internazionalizzata. Faccio un esempio: in Catalogna ci sono 630 imprese italiane e circa cinquantamila cittadini italiani. Il problema semmai sarà la reazione della Spagna. La Catalogna ha sempre asserito di volersi far carico della propria parte di debito pubblico spagnolo, ma se Madrid minaccia di volerci tener fuori dall’Europa, ciò non avverrà, provocando conseguenze gravi per le casse spagnole, giacché la Catalogna rappresenta il 20% del Pil della Spagna. Fino ad oggi si è parlato della Catalogna come di un problema spagnolo. D’ora in poi si dovrà parlare della Spagna, del suo atteggiamento verso la Catalogna, come di un problema europeo.

Come valuta invece l’atteggiamento dell’Unione europea rispetto al referendum?
Mi aspettavo una critica più incisiva nei confronti della violenza usata dalle forze dell’ordine spagnole. Ci sono valori che sono alla base dell’Unione europea, come il diritto di manifestazione e di poter votare liberamente, che sono stati lesi. Nonostante quanto sia successo domenica, il governo catalano resta disponibile al dialogo. Speriamo che l’Unione europea faccia pressioni sul governo Rajoy affinché accetti di sedersi al tavolo e negoziare con la Catalogna senza alzare muri.

Per voi l’indipendenza della Catalogna non è negoziabile?
Non è negoziabile il diritto del popolo catalano ad essere ascoltato. Il civismo di quelle oltre 2,2milioni di persone che si sono recate alle urne non può cadere nell’oblio. Chiediamo una soluzione politica a una questione che i fatti di domenica scorsa hanno aggravato.

C’è il rischio di una deriva violenta?
Da sette anni il popolo catalano sta manifestando in modo pacifico. La violenza è stata usata in modo spropositato dalla polizia spagnola per un preciso progetto politico. Di questo atteggiamento repressivo dovrà risponderne il governo Rajoy. Come del fatto che sta violando la Costituzione, perché sta applicando de facto l’art. 155, che prevede la sospensione della Comunità autonoma, senza una votazione parlamentare. Lo dimostrano gli arresti di quattordici membri del Governo catalano, l’irruzione nei ministeri governativi, il commissariamento delle finanze.

Il 22 ottobre si annuncia il voto in Veneto e Lombardia sulla richiesta di maggiore autonomia. Questioni diverse, ma ci sono affinità o simpatie con la vostra causa?
È importante fare delle differenziazioni, per non confondere l’opinione pubblica. Un conto è un referendum per chiedere più autonomia, un conto è quello per chiedere di intraprendere un percorso che potrebbe portare all’indipendenza. In Catalogna si tratta di un processo partito dal basso, dalla società civile, non dalla politica, e che affonda le radici in un’identità nazionale, in una propria lingua, in una storia comune. Da lombardo, affermo che vedo difficile poter definire la Lombardia una nazione, mentre la Catalogna lo è.