Ecco cosa ci aiuta a intravedere il martirio di Santo Stefano

Il 26 dicembre, festa liturgica di Santo Stefano, sembra interrompere bruscamente l’incanto del Natale: eravamo raccolti, commossi, attorno ad un Bambino, ed ora siamo invitati a far memoria di un uomo, “pieno di fede e di Spirito Santo” (At 6,5), lapidato per la sua testimonianza di Gesù.

In realtà, non si tratta di interruzione, ma di inveramento del Natale, e Stefano ci aiuta ad intra-vedere qualcosa di quel Bambino che, a Natale, vorremmo dimenticare: perché Maria “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (Lc 2,7). E allora comprendiamo che il gesto di Maria è profezia di altro; perché il legno della mangiatoia richiama il legno della Croce, piantata su una collina fuori dalle mura, e le fasce rinviano al sudario: Giuseppe di Arimatea, infatti, “lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto” (Lc 23,53).

La vicenda di Stefano è raccontata da Luca in una lunga sezione degli Atti degli Apostoli, ai capitoli 6 e 7: è il primo dei Sette scelti dagli Apostoli per il servizio delle mense e per l’assistenza quotidiana ai cristiani di lingua greca; è uomo che, “pieno di grazia e di potenza”, compie “grandi prodigi e segni tra il popolo” (At 6,8); discute in sinagoga, confessando la sua fede in Gesù. Ma proprio per le sue parole viene “incastrato” da falsi testimoni, che lo accusano di bestemmiare. Condannato a morte, proprio nell’ora decisiva diventa somigliantissimo a Gesù: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”; “Signore, non imputare loro questo peccato” (At 7,59-60). Proprio le parole di Gesù in croce, dette da un uomo la cui vita aveva ormai preso la forma di quella del Maestro… E mi viene in mente la preghiera di San Francesco, che prega il Padre perché, “interiormente illuminati e accesi dal fuoco dello Spirito Santo, possiamo seguire le orme del tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo” (Fonti Francescane, n. 233).

Mi ha sempre affascinato la parola di Gesù riportata nel testo (cfr. Mt 10,17-22) che viene letto durante la Messa, nel giorno di Santo Stefano: “Quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi”. Perché è lo Spirito che parla nel testimone, ed è questo che distingue il martire dal fanatico. Non si diventa martiri per scelta o per volontarismo (di questi pazzi, incapaci di amare la vita, non ne abbiamo proprio bisogno!), ma per obbedienza. Si diventa martiri per una grazia che va accolta senza essere in alcun modo cercata, perché l’amore di Dio vale più della vita (cfr. sal 63,4). Di fronte a chi gli vuole male, il martire non prepara prima la propria difesa, perché muore confidando, proprio come sempre aveva vissuto: mettendo la propria vita nelle mani di un Altro.

Il martire allora è un invito silenzioso a fare della nostra vita un dono, “trafficandola” per una causa per la quale valga la pena vivere e anche morire. E’ un invito a uscire dalla pigra routine che spesso abita le nostre giornate, routine che un antropologo, David Le Breton, ha chiamato biancore: “quello stato di assenza, più o meno intenso, quel prendere congedo da sé nell’una o nell’altra forma, in ragione della difficoltà o della fatica di essere se stessi… Una maniera di ‘fare il morto’ per un breve momento… è un momento di torpore, è un lasciar perdere, provocato dalla difficoltà di trasformare le cose”. Direbbe Papa Francesco: “è un balconare la vita, un diventare spettatore”. E’ allora una grazia di Dio, anche se dolorosissima, che il nostro sia un tempo di martiri. Perché Stefano è stato solo il primo!

E mi piace, per concludere, ricordare qui un Santo che mi è particolarmente caro, Oscar Arnulfo Romero, ucciso in Salvador dagli squadroni della morte mentre celebrava l’Eucaristia (e sembra incredibile e bellissimo: il dono della vita del testimone che realizza in pienezza la verità del segno: “Fate questo in memoria di me”).

Ma voglio ricordare anche i quaranta Martiri della fraternità, seminaristi della Diocesi di Bururi (tra i 16 e i 24 anni!), uccisi in Burundi, nel seminario di Buta, al tempo della guerra tra hutu e tutsi perché non si erano voluti dividere in ragione di una appartenenza etnica: sono morti tenendosi per mano, “perché siamo fratelli”. Conosco diversi preti di quella Diocesi, e sono convinto che la loro vita, davvero evangelica, trovi le sue radici profonde anche in quella vicenda, dolorosissima e feconda.