“Io, Gigi Radice e la Roma del Flaminio…”

Il tifo calcistico si alimenta di vittorie, ma anche e soprattutto di valori profondi come l’attaccamento alla maglia e l’identità. Aspetti che emergevano in modo più nitido ai tempi in cui la passione non era stata ancora sacrificata sull’altare della finanza. Uno di questi testimoni del calcio che fu se n’è andato venerdì scorso a 83 anni: si tratta di Gigi Radice, allenatore dell’ultimo Torino scudettato nel 1976, ma che ha guidato anche – tra le altre – Milan, Inter, Fiorentina, Roma. Sulla panchina dei giallorossi rimase una sola stagione, nel 1989/90, ma fu una parentesi memorabile. Era la Roma che giocava le partite in casa nel catino del “Flaminio”, perché l’Olimpico era in ristrutturazione in vista dei Mondiali di Italia ’90. Il portiere di quella squadra era Giovanni Cervone, un altro beniamino dei tifosi, rimasto otto anni nella Capitale, un metro e novantadue di stazza fisica che difendeva la porta romanista come un guardiano di un tempio. Nel giorno del funerale di Radice a Monza, In Terris lo ha intervistato. “Sarei voluto andare a dare l’ultimo saluto a un grande uomo – spiega l’ex portiere -, ma impegni familiari me lo hanno impedito”.

Un grande uomo alla guida della Roma del Flaminio, che non alzò trofei ma che è ancora oggi ricordata con emozione dai tifosi…
“Quella Roma seppe far breccia nel cuore dei tifosi anzitutto per l’intelligenza e la bravura dell’allenatore. L’inizio non fu facile, me lo ricordo benissimo: si parlava di una ‘Rometta’, i tifosi erano delusi perché dal mercato estivo erano arrivati giocatori da realtà di provincia, ad esempio io che venivo dal Verona. Determinante fu il lavoro di Radice, che ebbe la capacità di creare un amalgama tra i vecchi e i nuovi, tra giocatori di maggior esperienza come Bruno Conti e i nuovi acquisti come me”.

Che persona era Radice?
“Di allenatori ne ho conosciuti tanti, ma mai semplici, seri e preparati come lui. Ricordo che era considerato un ‘sergente di ferro’ fin dai tempi del Torino campione d’Italia. Invece era una persona squisita, che sapeva tirar fuori il meglio dai calciatori anche attraverso il rapporto umano”.

Che aneddoti ricorda in tal senso?
“Nello spogliatoio del campo d’allenamento avevamo una lavagnetta sulla quale ogni giovedì il mister scriveva il nome e l’indirizzo di un ristorante e diceva: ‘Ragazzi, stasera sono a cena qui, chi vuol venire è mio ospite’”. E ogni volta diversi di noi si aggregavano, perché era un piacere stare in sua compagnia ed era un modo per fare gruppo”.

Come mai Radice rimase solo una stagione?
“Da quel che so, c’era un accordo precedente tra la Roma e Ottavio Bianchi (allenatore che subentrò a Radice nell’estate del ’90, ndr). Dunque, la società nell’89 prese Radice come allenatore per una sola stagione. Ma alla fine il presidente Dino Viola se ne pentì, perché Radice era simile a lui, si era creato un binomio tra persone intelligenti”.

Quell’anno la Roma ottenne ottimi risultati soprattutto in casa, allo stadio Flaminio…
“Rispetto allo stadio Olimpico, per noi il Flaminio era un campetto. Ma avere tifosi passionali come quelli romanisti così a ridosso del campo era un grande vantaggio. Sentivamo la loro spinta sulle spalle, si creò un bel legame: non eravamo una squadra fortissima, ma i tifosi riconoscevano l’impegno. Anche se non vincevamo, uscivamo dal campo con la maglia sudata. E comunque arrivammo sesti e conquistammo l’accesso alla Coppa Uefa”.

Giocare in quel “campetto” dava una forte scarica adrenalinica…
“Ho dei ricordi bellissimi, indimenticabili di quella stagione: già il percorso per raggiungere il Flaminio era uno spettacolo. Intorno al pullman si radunavano tifosi festanti. Il clima che si era creato era unico: eravamo un gruppo irripetibile, coeso, che si divertiva a stare insieme, che non vedeva l’ora di giocare al Flaminio”.

Indimenticabili furono i due derby del Flaminio: uno pareggiato nei minuti finali con un gol del capitano Giannini e un altro vinto con un colpo di testa di Voeller…
“C’ero al derby d’andata, quando pareggiammo dopo aver lottato per riprendere una partita che si era messa male. Al ritorno purtroppo ero infortunato, ma ricordo bene il clima che si respirava: i compagni mi raccontarono che nel viaggio di ritorno in pullman passarono a Testaccio e scesero a festeggiare insieme ai tifosi”.

Che messaggio trasmette quella Roma così genuina e legata ai tifosi a quella di oggi, più distaccata e anche un po’ in crisi di risultati?
“C’è poco da trasmettere: il calcio è cambiato troppo e non esistono più i valori di un tempo. In quella Roma c’era gente come Bruno Conti, Giuseppe Giannini, Rudy Voeller: gente attaccata alla maglia, che restava per anni. Oggi un tifoso fa fatica ad affezionarsi a un calciatore, perché appena si guadagna la stima degli spalti, viene subito venduto. Dispiace, perché i romanisti meriterebbero di più”.

E dispiace anche vedere il Flaminio in stato d’abbandono?
“Molto. Ogni tanto si sente parlare di un recupero di quella struttura, ma poi non se ne fa nulla. È un peccato che un patrimonio della città e dello sport nazionale non venga recuperato”.