Opinione

Unità e molteplicità nel Dna della Chiesa

La Trinità è la chiave interpretativa per comprendere la fede, lo specifico dell’essere cristiano. E rappresenta anche la realtà della Chiesa, la sua natura, la sua missione. Un insieme di unità e molteplicità, di identità e diversità. Come dire, anche una maggiore diversità nell’essere Chiesa. Dal pontificato di San Giovanni Paolo II è uscita una Chiesa riconciliata, che ha fatto i conti con se stessa, con il suo passato, con le colpe che ne gravavano la storia, ne offuscavano il volto. E, questo, grazie soprattutto alla grande
esperienza del Giubileo del 2000, che le ha permesso di varcare la soglia del terzo millennio pentita e purificata. Una Chiesa più spirituale, più evangelica, più biblica, perché centrata sul primato della parola di Dio. E, quindi, della vita interiore, della santità: una santità finalmente “aperta” a tutti, e non più monopolio di alcune categorie, di alcuni gruppi.

Una Chiesa che non è più una monarchia assoluta, come poteva apparire fino a qualche tempo fa. Meno burocratica, e, in prospettiva, più sinodale, come nell’Oriente. Una Chiesa meno clericale e, invece, con un maggiore spazio per i cristiani laici, e in particolar modo per il “genio” femminile. Una Chiesa non più dominata, rispetto a un tempo, dal moralismo. E intanto- specialmente dopo la straordinaria catechesi di Karol Wojtyla sulla teologia del corpo – cominciava a delinearsi una proposta morale, non più caricata di divieti, di cose-da-non-fare, ma fondata sul disegno di salvezza di Dio Padre – un Padre esigente ma anche misericordioso – e tendente alla maturazione della coscienza del credente. Una Chiesa non solo realmente mondiale, ma espressione di una felice sintesi tra universalità e inculturazione.

Con il progressivo spostamento dell’asse dall’Occidente all’Asia, all’Africa a Sud America attraverso l’azione ecclesiale a favore della gente più povera, più oppressa. Mentre la missione evangelizzatrice viene purtroppo segnata da un nuovo martirio. Come agli inizi del cristianesimo. E ancora. Una Chiesa impegnata a fondo nel movimento ecumenico. Con un grande sviluppo delle relazioni con le altre Chiese cristiane e con le altre religioni. Anche se, per l’islam, ci sono grossi ostacoli a causa dell’espandersi del fondamentalismo islamico. Una Chiesa che non teme le sfide della modernità. Ormai conosce bene il senso della vera laicità, dei confini tra ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare. E se rivendica la propria identità e una presenza nella vita civile, non per questo aspira a un ritorno alla “societas christiana”, a un nuovo integralismo religioso. Una Chiesa incarnata nella storia, e che si è affrancata definitivamente da ogni connivenza, da ogni compromesso con sistemi politico-economici, con ideologie. Così, adesso, può testimoniare credibilmente l’esperienza cristiana nelle diverse società. Può scendere in campo e combattere la sua “battaglia” in difesa dei diritti umani, a partire dal diritto alla vita. In conclusione, una Chiesa che è immagine più trasparente e convincente dell’ amore di Dio, della sua misericordia, e quindi di una fede più dentro la quotidianità della vita umana. Una Chiesa più vicina agli uomini e ai problemi degli uomini. E più coraggiosamente impegnata nella costruzione della pace, della giustizia, nel segno della solidarietà, e di un’autentica “famiglia” di popoli e di nazioni.

Non era però un progetto chiuso, definitivo, né tantomeno un modello da imporre comunque e dappertutto. Giovanni Paolo II concepiva la Chiesa come frutto di ciò che lo Spirito le dice, e che, attraverso i carismi, suggerisce alle singole persone, ai gruppi, alle comunità. In altre parole, la Chiesa è espressione della fede del popolo, dell’insieme di esperienze, anche le più diverse tra di loro, anche apparentemente contraddittorie, ma che concorrono tutte a diffondere la parola di Dio, a instaurare il suo “regno”.

Ad esempio, fu papa Wojtyla a dare una poderosa spallata a quella che una volta aveva criticato come «l’antica unilateralità clericale»; ma fu poi la “realtà” profonda del cattolicesimo, sotto l’azione dello Spirito, a emergere alla superficie, a imporre nuovi protagonisti – i giovani, i movimenti, le donne – e nuove vie – il passaggio da una Chiesa gerarchica, clericale, a una Chiesa più comunitaria, più laicale, più popolo di Dio. Ma va anche ricordato che, questo progetto di Chiesa, si imbatté in forti resistenze, subì ritardi e addirittura correzioni di “rotta”, e, in genere, andò incontro a molte incomprensioni. E non sempre a causa di una vera e propria opposizione, ma anche, non di rado, per “pigrizia”, per timore delle novità. Fu quanto accadde, con diverse intensità, sia nella Curia romana, sia in non poche diocesi, e perfino in numerose parrocchie. Dove spesso – per la persistenza di un autoritarismo clericale, quello del parroco-padrone – i laici continuavano a essere esclusi da qualsiasi responsabilità. Ma già Giovanni Paolo II, per primo, aveva messo in conto tutto questo. Sapeva bene come le rivoluzioni, specialmente quelle spirituali, avessero bisogno di tempi lunghi, prima di riuscire a entrare nelle coscienze e, più ancora, nelle strutture. Infatti, il Papa non si preoccupò più di tanto, quando venne a sapere dell’esistenza di un “fronte del no”. A lui importava seminare, e cioè che, nell’humus profondo del cattolicesimo, si depositasse questa immagine di una Chiesa rinnovata. Più che un uomo di governo, Wojtyla si sentiva fondamentalmente un pastore, un vescovo, e non era ossessionato dal fare-per-fare, o dal vederne subito i risultati.

Gianfranco Svidercoschi

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