I furbetti dei fondi pubbliciQuanto costano truffe e frodi

Un milione 650mila euro in due giorni. E’ quanto ammontano le condanne che la Corte dei Conti ha comminato in diverse sentenze pochi giorni fa tutte riguardanti frodi, truffe e appropriazioni indebite di soldi pubblici, che siano stati erogati dall’Europa piuttosto che dalle Regioni o da Enti collegati. Una voragine senza fine, che non accenna a diminuire nonostante gli arresti degli ultimi anni. E che rovescia in un certo modo anche il pensiero comune per cui i “ladri” sono i parlamentari che mangiano alle spalle della gente. Al ritmo di un milione e mezzo ogni due giorni, il danno fatto all’Italia da chi utilizza il finanziamento pubblico come un bancomat personale è una piaga più grave persino degli sprechi della politica.

Non a caso la Relazione annuale del Colaf (Comitato nazionale per la repressione delle frodi nei confronti dell’Unione Europea) evidenzia per le cosiddette “irregolarità” un impatto finanziario pari a 34 milioni di euro solo per il 2013, mentre per le vere e proprie frodi si aggiungono altri 56,7 milioni. Per andare controcorrente rispetto alla vulgata generale quando parla di Stato inefficiente (che pure in molti settori corrisponde a verità), va sottolineato come queste cifre spaventose se da un lato dipingono la realtà di un Paese di furbetti, dall’altra valorizzano anche il lavoro fatto dalle forze dell’ordine: in sostanza, un alto numero di irregolarità riscontrate va anche letto in termini positivi, ossia di buona performance dello Stato Membro dell’Ue nel controllo dei fondi destinati al proprio territorio.

L’Italia in questo ha sviluppato un elevato livello di tutela, e a conferma di ciò più volte è stata considerata un modello di riferimento dall’Olaf, l’ufficio europeo antifrode; il quale ha sottolineato come l’assenza di irregolarità in altre nazioni non sia figlia di un percorso virtuoso ma al contrario dall’assenza totale anche di controlli.

A tale proposito risulta ancora attualissima l’enciclica di Benedetto XVI “Caritas in Veritate”, che metteva al centro della riflessione di sviluppo economico la giustizia e il bene comune. Secondo quel documento l’etica è un fondamento dell’impresa anche perché contribuisce a produrre migliori utili; rafforza il presupposto basilare senza del quale non c’è libero mercato. Il libero mercato non può essere la lotta di tutti contro tutti in cui vince il più forte. Né tantomeno il più furbo o sedicente tale. Benedetto XVI auspicava “una regolamentazione del settore tale da garantire i soggetti più deboli e impedire scandalose speculazioni”. Per un mondo migliore, anche sotto il profilo economico, va riscoperto prima di tutto il valore dell’onestà e del rispetto delle regole. A tutti i livelli.