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Gerusalemme: una città divisa tra la paura e l’incredulità

Gerusalemme è una città spaventata e ferita. Fino a sabato scorso le sue strade erano piene di turisti, di pellegrini e di ebrei ortodossi accorsi per la Sukkot, festa gioiosa che ricorda la permanenza nel deserto dopo la liberazione dall’Egitto. Quando però la notizia dei massacri in corso ha iniziato a circolare, la città si è svuotata, i negozi hanno abbassato le saracinesche e la gente si è rifugiata tra le mura di casa.

L’intervista

Al quinto giorno dall’inizio dei combattimenti la situazione è sempre più tesa e si attende l’offensiva di Israele, in risposta agli attacchi di Hamas. Interris.it ha raggiunto telefonicamente Don Filippo Morlacchi, sacerdote romano fidei donum, in Terra Santa dal 2018 che ha spiegato i sentimenti e le paure che invadono il popolo ebreo.

Don Filippo, come ha reagito Gerusalemme?

“Già da quando hanno iniziato a girare i primi video delle brutalità in corso, di corpi sanguinanti e uccisi, la città ha capito che non si trattava dei soliti attacchi terroristici, ma di qualcosa di più grande che avrebbe cambiato l’orizzonte politico. Queste azioni hanno colto gli israeliani di sorpresa in quanto è accaduto qualcosa di non contemplato, cioè le forze armate di Hamas e i suoi alleati hanno varcato il confine della striscia di Gaza e c’è stata un’invasione all’interno del territorio israeliano che fino ad allora era considerato un porto sicuro”.

L’attacco è avvenuto in modo inaspettato. Quanto ha ferito Israele?

“Molto, il confine è stato abbattuto con delle ruspe e l’entrata è avvenuta con delle semplici motociclette e con dei pick up da campagna. In poco tempo un numero elevato di uomini armati ha aggredito senza pietà e indistintamente civili e non, tra cui molti bambini. Tutto ciò nella mentalità di un ebreo è una ferita profonda, difficile da sanare perché il porto sicuro si è dimostrato permeabile e con delle falle gravissime”.

Hamas è riuscita a infondere terrore?

“Sicuramente sì, perché sta agendo in modo terroristico, utilizzando tecniche brutali e esibendo la violenza con la quale sono stati calpestati i civili. Il loro primo intento è quello di terrorizzare Israele e infondere l’idea che tutti quanti sono in pericolo e nelle mani di un potere oscuro e minacciosissimo”.

In città si avverte la paura per eventuali disordini?

“Si tratta di una preoccupazione reale in quanto in periferia sono già avvenuti. Sono semplici scontri di violenza, piccoli e diversificati che possono coinvolgere il cittadino ebreo che si sente offeso e dunque aggredisce un gruppo di arabi. Per scongiurare questi episodi l’esercito ha diramato il divieto fino a domani alle ore 18 di incontrarsi in più di dieci persone all’esterno e anche le attività educative e formative sono vietate in presenza”.

Come si può portare un messaggio di pace in questa terra?

“Tutti noi abbiamo espresso profonda solidarietà nei confronti del popolo ebraico che è stato colpito da una ferocia bestiale che sta provocando un dolore incalcolabile. Ora si teme una reazione militare nei confronti di Hamas che produrrebbe solo altre vittime innocenti, diventando ancora seme di vendetta. Questa terra ha bisogno di un dialogo di comunione in cui gli schieramenti avversi la smettano di guardarsi con odio e inizino a comprendere le ragioni dell’altro per parlare finalmente di un futuro di pace”.

Le due parti saranno in grado di fare tutto ciò?

“Sì, ma purtroppo non nell’immediato perché adesso è l’ora della sofferenza, della rabbia e della vendetta. Come si potrebbe chiedere a una persona che ha visto un parente rapito e ucciso barbaramente di perdonare chi ha provocato tutto ciò? C’è bisogno che il tempo lenisca questo dolore immane per costruire dei percorsi di comprensione reciproca in cui non ci siano né vinti, né vincitori”.

Elena Padovan

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