Terremoto a L’Aquila e il suo monastero, una storia di rinascita

Dieci anni fa, l'orologio del nostro Paese si fermò alle 3.32 di una notte di inizio primavera, in quel periodo dell'anno in cui le giornate iniziano ad allungarsi e il tempo resta incerto, tra gli ultimi freddi e i primi sprazzi del sole caldo. Quella notte, però, quando tutto finì di tremare fu il gelo a scendere sull'Italia, ferita al cuore da un terremoto inaspettato, crudele, che spezzò la tranquilla notte de L'Aquila e delle sue frazioni. Al risveglio la città stessa stentò a riconoscere se stessa. Case, palazzi, strade, vite… tutto infranto, tutto distrutto, ridotto in macerie. Un sisma violento, che portò con sé 309 vite e costrinse il Paese a mettersi in moto per lenire il dolore di chi, in quei pochi secondi, aveva perso ogni cosa. Sono trascorsi dieci anni e L'Aquila sembra ancora attendere che si concretizzi del tutto la promessa del ritorno a una vita normale. Forse niente tornerà come prima ma la forza della città non ha mai cessato di farsi sentire, consentendo la crescita di germogli di speranza nel lento percorso verso la rinascita. La ricostruzione del Monastero di Paganica, tornato definitivamente operativo il 9 marzo scorso, è una di quelle storie, una speranza esaudita con la forza della preghiera e di una popolazione intera. Tanta gente che, come racconta a In Terris la badessa Suor Rosa Maria, “si è fatta provvidenza e strumento di Dio”.

 

Suor Rosa Maria, dieci anni fa il sisma sconvolse la vostra città. Da allora il vostro percorso è stato estremamente difficile, segnato dal dramma di una popolazione che voi stesse avete vissuto. Ora però siete davvero tornate a casa…
“Il 9 marzo siamo rientrate in una parte del monastero restaurato, poiché mancano ancora dei lavori in altre aree del complesso, tra cui la chiesa. Dopo dieci anni, però, siamo potute rientrare nella nostra casa, dove siamo nate e dove, la notte del terremoto del 6 aprile 2009, morì madre Gemma, allora nostra badessa. Noi tutte eravamo nel dormitorio quando il tetto è crollato. Siamo vive per miracolo. Gli stessi tecnici che fecero i sopralluoghi, che non sono credenti, non riuscirono a spiegarsi come fossimo uscite vive di lì, benché diverse sorelle fossero rimaste ferite. Probabilmente il Signore ha pensato che avessimo ancora qualcosa da fare per lui”.

In molti si mossero per aiutarvi, a cominciare da chi vi accolse provvisoriamente…
“Noi abbiamo davvero sperimentato una forza oltre l'umano. Quella notte, in pochi secondi abbiamo perso tutto: la nostra casa, il nostro monastero che per noi, suore di clausura, è un luogo importantissimo. Perdite molto gravi che, però, non corrispondono al dolore per la scomparsa della persona per noi più importante: madre Gemma era davvero una persona di Dio, colei che aveva aperto le porte a tutte noi. E ad accoglierci è stato proprio il luogo da cui la nostra badessa proveniva, il monastero di Pollenza. Inizialmente non pensavamo di andare ma, con alcune sorelle ferite, due delle quali molto anziane, abbiamo deciso di trasferirci provvisoriamente, lì nelle Marche”.

Nonostante la distanza, però, sentiste a restare vicine agli aquilani…
“I primi tempi fu un continuo andirivieni per i 180 chilometri che separano le due città ed è stata molto dura, soprattutto per noi che non eravamo abituate a viaggiare. Sono stati nove mesi molto intensi, nei quali però abbiamo conosciuto degli angeli custodi, persone che si sono fatte provvidenza, tanti fratelli e sorelle con cui custodiamo ancora legami molto forti. Sono state tante le persone che ci hanno aiutato, dai Vigili del fuoco ai volontari ma, soprattutto, la gente comune che si è posta accanto a noi, sostenendoci con la carità degli aiuti concreti ma anche della preghiera. Una forza che ci è arrivata, che abbiamo sentito e che ci ha consentito di andare avanti. E la provvidenza si è davvero subito attivata: senza che noi chiedessimo nulla, è arrivata la proposta di Telepace, che proponeva una raccolta pubblica, affinché fosse ricostruito il nostro monastero. Ancora oggi è motivo di profonda commozione pensare che tanta gente, da tutta Italia, si è fatta per noi come il buon samaritano, consentendo la costruzione del monasterino di legno che ci ha permesso di rientrare a Paganica”.

Quanto è stato importante per la cittadinanza avervi vicine?
“Volevamo esserci per condividere fino in fondo il dolore della città, perché noi stesse lo stavamo vivendo. Quando, dopo nove mesi, riuscimmo a tornare stabilmente sul territorio vedemmo che la gente era contenta: diceva che il nostro ritorno era una segno di speranza perché, in un contesto dove il desiderio era quello di fuggire, dava loro la forza di restare. Per questo la presenza del monastero è stata anche un po' la costruzione del futuro. E questo attraverso tante guarigioni dei cuori. Non possiamo pensare che il terremoto abbia un impatto solo esterno perché colpisce anche interiormente, cambia completamente la vita. Chi aveva la forza di venire al monastero, stando alla presenza di Dio riusciva davvero a compiere un percorso di guarigione. Abbiamo camminato con la popolazione, offrendo ascolto, preghiera, dialogo. Semplicemente, il nostro essere presenti come figlie di Santa Chiara, mettendo a disposizione quello che il monastero poteva, come luogo di silenzio, pace e incontro. Questo nonostante la ricostruzione sia stata lunga e problematica, anche a livello burocratico. Ci abbiamo messo dieci anni, però ce l'abbiamo fatta”.

Nella vostra sistemazione provvisoria conduceste non solo la vostra vita consacrata ma anche le vostre consuete attività…
“Il monasterino di legno era molto piccolo per otto sorelle. Noi viviamo di provvidenza ma anche del lavoro delle nostre mani, producendo copribibbie e breviari in cuoio, lavorando candele e dipingendo icone. Inoltre, per chi ce lo chiede, fabbrichiamo anche bomboniere. Immagina cosa significhi fare tutto questo in una sola stanza… Anche per questo il giorno del nostro ritorno è stato di festa: quel clima di gioia voleva dire un grande grazie, a Dio che si è fatto provvidenza e ci ha consentito di arrivarci, ma anche alla gente che è stata strumento nelle sue mani. Quel giorno si è mossa l'Italia, da nord a sud, per esserci vicina. Terminata la liturgia, in processione siamo entrati nel monastero per la benedizione del nostro cardinale, mons. Petrocchi, anche alla presenza di altri vescovi di altre zone terremotate”.

E' stato però anche un riconoscimento al vostro monastero che, per gli aquilani, rappresenta un importante riferimento spirituale.
“Senz'altro costituisce un riferimento bello. Noi custodiamo anche il corpo incorrotto della beata Antonia, molta amata dagli aquilani. La presenza del monastero ha significato la presenza di Dio, perché è un luogo in cui tu puoi incontrarlo, contemplando la pace e raccogliendo la forza per affrontare le difficoltà. Incontri persone che ti accolgono e ti ascoltano”.

La preghiera è stata la vera forza motrice?
“Lo abbiamo sperimentato. Noi non siamo state preservate in nulla: abbiamo perso la casa, la nostra persona più cara. Siamo riuscite a partecipare al dolore della gente perché noi stesse lo stavamo vivendo. E il Signore l'ha permesso proprio perché noi potessimo capire la sofferenza degli altri. In quei giorni non serviva neanche parlare, bastava guardarci per capire cosa stesse provando chi veniva da noi, magari dopo aver perso una persona cara. Il conforto arrivava da un cuore che stava vivendo la medesima cosa”.

Sono trascorsi dieci anni… Cos'è oggi L'Aquila? Quanto ancora c'è bisogno del vostro operato fra questa gente?
“L'Aquila e la sua gente sono dei combattenti, che hanno voglia di gioire, di vivere della ferialità e della bellezza della città. Sono passi ancora lenti, c'è tanto da fare ma ogni riapertura è una gioia. Le persone hanno desiderio di riprendere in mano la loro città e lasciarvi fluire il quotidiano. E' gente che soffre e vive le conseguenze di un trauma ma che non smette di lottare. Questo è un modo per affrontare il dolore ma anche per tirar fuori da sé stessi le risorse più belle. In tutto questo, noi vogliamo essere come una luce sul monte, un faro che indica la rotta, incoraggiando a non perdere mai quella speranza che, per noi, ha un nome. Ed è Dio”.