“Ponte Morandi: come evitare tragedie simili”

Stavolta il tributo pagato in termini di vite umane e di feriti è stato ingente. Il crollo del Ponte Morandi, a Genova, ha causato finora 38 morti accertati, una quindicina di persone ricoverate in ospedale e un indefinito numero di dispersi. Ma non si è trattato del primo crollo di un ponte della storia recente d’Italia. Hanno fatto meno notizia, eppure di ponti venuti giù, al Sud come al Nord della penisola, ce ne sono stati diversi. Maltempo, cedimenti strutturali, scarsa manutenzione: le cause reali si sovrappongono spesso alle mere ipotesi. Resta il fatto che la tragedia di Genova rappresenta soltanto l’ultimo campanello d’allarme sulle infrastrutture italiane che non può più restare inascoltato. In Terris ha approfondito il tema con Roberto Troncarelli, presidente dell’Ordine dei Geologi del Lazio.

Presidente, il fatto che il ponte fosse costruito in una città di mare potrebbe aver influito sul crollo?
“Si può affermare con certezza che in ambiente marino il calcestruzzo subisce un processo di carbonatazione più rapido, che ne peggiora le caratteristiche meccaniche”.

Potrebbe essere caduto anche per le forti piogge?
“Mi sento di escluderlo in maniera categorica. Così come è da escludere che il crollo sia da attribuire a un fulmine che, a detta di alcuni testimoni, potrebbe aver colpito la struttura a doppia V centrale. Al limite si può parlare di una concausa dall’incidenza molto limitata”.

E allora qual è la causa principale?
“Si tratta di una struttura vecchia. Progettata, oltretutto, per un carico veicolare e per un peso di gran lunga inferiori a quelli dovuti al traffico odierno su quel tratto. Una struttura del genere avrebbe avuto bisogno di un costante monitoraggio”.

Non è stato fatto?
“Non posso dirlo. Ciò che so con certezza, avendo lavorato fianco a fianco con degli ingegneri, è che dopo un certo numero di anni gli interventi di manutenzione diventano più costosi rispetto all’abbattimento e ricostruzione. Nel caso specifico di quel ponte, poi, va detto che l’intervento di cui probabilmente c’era bisogno – di rafforzamento, ristrutturazione e riadattamento – sarebbe stato molto difficoltoso perché si trova in un ambito urbano, con grosse interferenze sul traffico e sulla vita quotidiana”.

Con il senno di poi, possiamo dire che sarebbe stato meglio avere i disagi…
“Assolutamente. Ricordo che dopo il crollo della scuola di San Giuliano in Molise, nel 2002, il Consiglio dei ministri varò un’ordinanza che obbliga proprietari, gestori e manutentori di strutture di rilevanza ai fini di protezione civile – e certamente l’autostrada nel tratto del crollo di Genova lo è – a fare verifiche periodiche e, quando necessario, ad intervenire. Dunque le norme esistono, purtroppo però in Italia c'è una filiera di responsabilità così farraginosa per cui è sempre complicato capire a chi spetta fare cosa”.

Sarebbe necessario accentrare i poteri in certi casi?
“Andrebbe creata una cabina di regia che sorpassi e vada oltre le competenze di enti locali per fare un’azione di coordinamento nazionale. Si tratta di una questione che noi geologi, per quanto riguarda le aree di nostra competenza, solleviamo continuamente: non usciamo dall'empasse fin tanto che questa frammentazione di competenze e decisioni non viene accentrata da un unico organo”.

In passato è mai stato fatto?
“L’azione nel post-sisma de L’Aquila fu molto efficace proprio perché l’allora capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, fu investito di pieni poteri. Ricordo che furono ‘sistemati’ 70mila sfollati in 90 giorni. Per fare un confronto: nelle zone di Amatrice, dopo quasi due anni dal sisma, nonostante gli sfollati siano nettamente inferiori, la situazione è ancora tutt’altro che risolta”.

Cosa occorre fare ora a Genova?
“Secondo me andrebbe nominato un commissario ad acta che abbia corsie preferenziali sulla gestione della rimozione di quei tronconi di ponte che sono rimasti penzolanti. A mio parere, purtroppo, le case che si trovano sotto andrebbero espropriate e demolite. Ho trovato articoli che raccontano di grandi disagi che subì la popolazione di quei quartieri quando il viadotto venne realizzato. Lei immagini che tipo di disagi può causare adesso la messa in sicurezza dell’esistente”.

Ciò che rimane del ponte può provocare altri danni?
“Certo. Il vento può causare enormi problemi. Ricordo che allo stato attuale quei tronconi penzolanti sono slegati…”.

Nazionalizzare le infrastrutture a suo avviso sarebbe utile?
“Tra gli anni ’80 e ’90 avvenne una massiccia opera di privatizzazione di grandi strutture prima appartenenti allo Stato. Ora forse è il caso di ripensare quel processo. I risultati delle esternalizzazioni sono carenti, perché la necessità di fare profitto da parte dei privati rischia di far sottovalutare l’obbligo di garantire le condizioni di ampia sicurezza. Probabilmente nazionalizzare non sarebbe una cattiva idea: garantirebbe un maggiore controllo e creerebbe lavoro, in quanto i grandi gruppi hanno rami tecnici al proprio interno molto limitati. È ora invece di implementare il settore delle persone che si occupano del controllo delle strutture: cito a titolo d’esempio la figura romantica del casellante, che abitava nel suo casello e giornalmente percorreva un’area di cinque chilometri per verificare che non ci fossero anomalie; quando le rilevava, interveniva direttamente se erano di poco conto oppure avvisava il proprio capotronco. Ma se non si vuole nazionalizzare, va almeno eliminato il criterio del massimo ribasso: quando si fanno gare di appalto su strutture che incidono sulla nostra sicurezza, non si possono mettere le imprese nella condizione di risparmiare pur di prendere il lavoro”.

Quanti sono i ponti in Italia che rischiano la stessa fine del Morandi di Genova?
“Non ne ho idea. Sicuramente ce ne sono. Ma non do stime perché rischierei di sbagliare”.

Un esempio: la Tangenziale di Roma è a rischio?
“Non ne parliamo… Il tratto che sale uscendo dalla Tiburtina è terribile. Anche quella è una vecchia opera, per una mole di traffico nettamente inferiore, che oggi andrebbe totalmente ripensata. Ma è anche il caso, restando a Roma, del Ponte della Magliana. Tutte le strutture realizzate negli anni ’60 e ’70 che hanno subito il ciclo di impoverimento del calcestruzzo andrebbero demolite oppure rinnovate, ma con interventi che avrebbero un costo superiore alla demolizione e ricostruzione”.

Il suo è un appello a favore delle grandi opere: conviene di più costruire ex novo che ristrutturare…
“Faccia conto di avere una bilancia. Su un piatto va messo che qualsiasi grande opera genera un costo in termini ambientali, è inevitabile. Ma sull’altro piatto bisogna collocare le spese ingenti per la riqualificazione di un’opera esistente, la burocrazia nonché i ricorsi vari ed eventuali che la rallentano, infine i gravi rischi per la sicurezza quando – in forza di questi elementi – l’intervento non avviene. Prendiamo l’esempio di Genova: il progetto della Gronda, che io ho studiato facendo parte di una commissione ad hoc, avrebbe inciso in maniera importante a livello ambientale, perché la morfologia ligure complica moltissimo le costruzioni, però avrebbe evitato di caricare così tanto il Ponte Morandi. E forse a quest’ora io e lei non ci saremmo sentiti…”.