Tutto frena e l’uomo è al centro

Da 1899 metri di altezza arriva una storia fatta di amore e speranza, una storia che riporta i colori e gli odori della montagna. Si sale sul monte Cervati

Il massiccio del monte Cervati con i suoi 1899 metri di altezza è la montagna più alta della Campania. È tripartito tra i comuni di Sanza, Piaggine e Monte San Giacomo, tutti in provincia di Salerno. È situato nel cuore del Parco Nazionale Cilento, Vallo di Diano e Alburni, rientrante nella rete dei Geoparchi, parchi naturali caratterizzati da particolari aspetti geofisici e da una strategia di sviluppo sostenibile. Nei pressi della vetta, che ricade nel territorio di Sanza, è situato il Santuario Diocesano della Madonna della Neve costruito intorno al X secolo. È immerso nella magia di 21 km di natura incontaminata tra cavalli selvatici, mucche podoliche e cinghiali con aquile e falchi nel cielo che volano su immensi prati ora in piena fioritura tra orchidee e primule di Palinuro.

Interris.it ha incontrato Riccardo D’Arco che da alcuni anni qui gestisce il “Rifugio Cervati”, l’unico rifugio della Campania aperto 365 giorni all’anno. Un luogo unico al quale Riccardo ha dedicato l’anima, l’unico luogo capace di donargli “un senso di pace surreale” tra natura incontaminata e gli animali che vi abitano. Qui il vasto territorio del parco offre alle specie animali una grande pluralità di ambienti. Non deve dunque stupire la ricchezza e varietà degli esemplari presenti: le sole indagini sulle specie di interesse comunitario ne hanno individuate 63. Alcune di queste sono considerate di interesse prioritario: sono Osmoderma eremita e Rosalia alpina (quest’ultima richiamata anche nel nome del Rifugio), invertebrati, e, tra i Vertebrati, il Lupo. Più in generale – racconta Riccardo – dal 2003 si hanno circa 600 segnalazioni di specie. Tra i Mammiferi le più interessanti sono la Lepre Italica, il Molosso di Cestoni, il Lupo e la Lontra – mammifero di acqua dolce che vive solo in acque pure e cristalline – poi diversi altri, non raro è il Ghiro. Numerosissimi i cinghiali, presenti anche i cervi”.

Perché questo posto è chiamato la nevara?

“Non molto distante dal Santuario della Madonna della Neve, posto in cima al monte Cervati, si trova un inghiottitoio carsico caratterizzato dalla presenza perenne di neve e per tal ragione conosciuto come Nevera. La leggenda narra che in un’estate particolarmente torrida (probabilmente nell’anno 1461), il re di Napoli Ferdinando I d’Aragona abbia inviato gli esploratori alla ricerca di ghiaccio su tutto il territorio del Regno per preparare un sorbetto al limone, dato che i dintorni della capitale erano ormai del tutto privi di neve. Giunti sul Cervati, i cartografi individuarono la nevera e, riempite diverse botti, le caricarono sui muli per trasportarle fino al vicino porto di Palinuro dove imbarcarle per farle arrivare direttamente a Napoli. Nei secoli a seguire, il Cervati rimase un’ottima riserva di ghiaccio per le esigenze reali della capitale del regno e negli scorsi anni la zona della nevera è stata teatro di una manifestazione che rievocava la spedizione reale alla ricerca di neve per il Sorbetto del Re Borbone”.

Cosa rappresenta per te il rifugio e cosa ha significato chiudere? 

“Chiudere è stato un colpo al cuore, ma non mi sono mai fatto prendere dallo sconforto. So che è un momento difficile anche per chi ci governa, perché prendere delle decisioni non è facile soprattutto quando in ballo c’è la salute delle persone. Per la prima volta non si parla più di economia, investimenti o industrializzazione. Tutto questo è passato in secondo piano mettendo al centro l’uomo ed in fondo penso che questa pandemia proprio questo voglia insegnarci: la centralità dell’essere umano in tutti i suoi aspetti. Molti, inoltre dicono di aver riscoperto la bellezza delle piccole cose, ma io, in realtà, con la mia famiglia abbiamo continuato la vita di sempre fatta proprio della semplicità che la montagna ci regala. Qui a Piaggine, da sempre abbiamo dei ritmi molto rallentati rispetto a quelli frenetici di chi vive in città ed è proprio questo il bello di questo stile di vita. Andare più piano è proprio la filosofia del Carpe diem oraziano, rallentare vuol dire godere dell’attimo che si vive ed è questo quello che noi vogliamo trasmettere ai nostri ospiti quando decidono di vivere l’esperienza del rifugio”.

Come pensate di riprendere le vostre attività?

“Non è facile progettare sin da ora un ripristino delle attività perché purtroppo il nostro rifugio rappresenta un piccolo nido di amore e di amicizia fraterna dove si vive costantemente a contatto condividendo tutto ciò che si fa, dalla colazione, all’escursione, alla cena. Il rifugio non è un albergo, è un luogo di passaggio ma allo stesso tempo è un luogo del cuore dove le attività che vengono svolte non permettono di stare facilmente a distanza, quindi bisognerà reinventarsi e capire cosa fare…non sarà facile, ma ce la faremo“.