Questa settimana ha fatto il giro del mondo la notizia di Majubin Hakimi, la pallavolista afghana uccisa dai Talebani perché giocava senza velo. Questa ragazza – raccontano i media indiani – aveva 18 anni, giocava nella sua nazionale e sarebbe stata decapitata ad inizio ottobre. Non tutti i dettagli sono ancora chiari perché la famiglia non avrebbe reso noto la notizia per paura di rappresaglie. Ma le reazioni sono state unanimi.
“Il mondo ha fallito, potevo essere io” ha detto Sylla, la capitana della nazionale azzurra di pallavolo, campione di Europa. Un frase semplice, ma immediata che mi ha fatto fare subito lo stesso pensiero: ho più o meno la stessa età, certo non sono una campionessa di volley, ma se fossi nata in quei territori, sarebbe potuto accadere anche a me. Magari perché avrei voluto studiare, camminare da sola per strada o guidare un’automobile. Tutte cose che le donne non possono fare. E allora si, ho fatto un sospiro di sollievo, per essere nata da questa parte del mondo e al tempo stesso, però, non mi è bastato. Mi sono sentita impotente e ingrata perché non sempre sono consapevole della mia libertà, non sempre la utilizzo nei migliori dei modi. Non sempre mi impegno per tenere alta l’attenzione su quel che accade al di fuori della mia “comfort zone”.
A volte l’indifferenza è una difesa, un modo per andare avanti nella propria vita senza porsi domande scomode o mettersi in discussione, ma non può essere mai una giustificazione. Certo è molto difficile cercare di essere coerenti con le belle parole che si dicono, ma è ciò che permette di guardarsi allo specchio la sera e sentirsi in pace con se stessi. Almeno per averci provato. Tutti i dibattiti sono importanti, noi donne occidentali abbiamo priorità molto diverse – anche se ugualmente importanti – rispetto a quelle afghane. Viviamo in parti di mondi distanti, non solo geograficamente. Abbiamo storie e culture differenti da comprendere e analizzare a vicenda. L’elenco di ciò che ci distingue potrebbe essere infinito, ma è molto meglio concentrarsi su ciò che può unire sull’unica grande comunanza che possiamo condividere e da cui possiamo ripartire: siamo donne. Possiamo cominciare da questo.
Giocare a pallavolo, lo sport in generale, è un mezzo di emancipazione e libertà. Si sperimenta un senso di comunità, si vive la felicità del raggiungimento di un obiettivo. Si impara la solidarietà e il rispetto delle regole. Dietro a un pallone c’è molto di più e forse anche per questo che dall’Afghanistan è in atto una vera e propria fuga degli sportivi. La Fifa ha evacuato nei giorni scorsi più di 50 persone, per lo più donne e bambini del mondo del calcio e del basket femminile. A metà ottobre aveva messo in sicurezza altri 100 membri della Federcalcio afghana, comprese le giocatrici. Sono orgogliosa di ricordare che l’Italia sta facendo molto in questo senso e sono tanti gli sportivi che ha deciso di ospitare. Se il sacrificio di Majubin servirà a renderci ancora più sensibili, forse la sua morte non sarà avvenuta invano.
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