Centinaia di persone sono morte in Burundi da quando nell’aprile del 2015 sono scoppiate le proteste contro un nuovo mandato del presidente Pierre Nkurunziza. A febbraio in una sola notte si sono contate dieci esplosioni a Bujumbura (la capitale) causate da alcune granate. Un bambino di dieci anni è stato ucciso nel mercato Siyoni nel quartiere Ngagara, a nord della città, altra vittima simbolo di una guerra sconosciuta. Quasi quarto di milione di persone sono fuggite. Ora Nkurunziza sembra aprire al dialogo con l’opposizione (lo ha fatto in un incontro con il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che si trovava in visita nel Paese africano) ma la situazione reale non è cambiata.
È una di quelle periferie del mondo di cui nessuno parla, dove la gente muore nell’indifferenza generale. Anzi, di più: nell’assenza di consapevolezza del resto del mondo, visto che è quasi inesistente sui radar dell’informazione ciò che accade in questo piccolo Stato africano di appena 27.830 km² di superficie.
La gente è stanca di soprusi e violenze, e sta tentando la via di una denuncia collettiva alla Corte penale internazionale, dopo che sessanta famiglie di vittime hanno già sottoscritto un appello da consegnare all’Aja.
Nel testo non ci sono solo soprusi ma vengono denunciate uccisioni senza regolari processi, deportazioni, torture. Il procuratore generale del Burundi sta tentando di evitare la strada del Tribunale internazionale – che metterebbe il Burundi sotto i riflettori – promettendo il pugno di ferro; ha invitato i familiari delle vittime di presunte esecuzioni sommarie per fornire prove per le indagini, chiedendogli esplicitamente di non sottoporle alla Corte penale internazionale (CPI).
Un pool di avvocati si è offerto di raccogliere le segnalazioni provenienti dalle 60 famiglie che affermano di aver visto morire i propri cari, e si dicono pronti a sostenere altri casi. L’obiettivo- dicono – è “portare gli autori di questi gravi crimini contro l’umanità dinanzi ai giudici”. La CPI è stata istituita nel 2002 per indagare e processare i responsabili di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, in cui le autorità nazionali non possono o non vogliono perseguire.
Intanto i volontari continuano recuperare le vittime di questa mattanza, come (nella foto) alcune parti del corpo di una persona sconosciuta ucciso da presunti membri di un gruppo armato e sepolto in una fossa comune a Mutakura, a nord della capitale del Burundi, Bujumbura. Uno schiaffo all’indifferenza.
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