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L’oscura minaccia terrorista sul Mozambico

“Il Santo Padre ha detto di seguire gli eventi della nostra provincia con grande preoccupazione e di pregare costantemente per noi”. Monsignor Fernando Lisboa, vescovo di Pemba, in Mozambico, confida a Vatican News una conversazione avvenuta con Papa Francesco. Un colloquio confidenziale, telefonico. Uno dei tanti gesti semplici ai quali il Pontefice ci ha abituati e che, questa volta, offre l’occasione di aprire uno spaccato su uno dei Paesi africani che lo stesso Papa Francesco aveva inserito fra le priorità nell’ambito dei suoi viaggi apostolici.

Un anno fa…

Esattamente un anno fa Bergoglio fece tappa nel Paese (e anche in Madagascar e alle isole Maurizio), tornando dall’Africa con un bagaglio importante di esperienze che avrebbe poi condiviso, ricordando che “il trionfo è la pace. Noi non abbiamo il diritto di essere trionfalistici, perché la pace è ancora fragile nel Paese, come nel mondo è fragile, e la si deve trattare come si trattano le cose appena nate, come i bambini, con molta tenerezza, delicatezza, perdono, pazienza, per farla crescere così che diventi robusta”.

Un gruppo arcano

Un messaggio che, oggi, torna a rivestire un’importante valenza, laddove il riverbero del terrorismo continua a crescere e diffondersi, facendosi strumento di morte. Un’offensiva sanguinaria che sta sconvolgendo il nord del Paese, in particolare l’area di Mocimboa da Praia, porto strategico per il Mozambico e bersaglio di alcuni raid di un gruppo terrorista tanto feroce quanto indefinito. Una cellula che si fatica a definire jihadista ma nemmeno un manipolo di criminali comuni. Di appartenenza incerta, di affiliazione ancor meno certa, con un nome che è anch’esso noto solo a chi ne ha subito la violenza: Ahlus Sunna wal Jamaa. Forse connesso ai miliziani di al-Shaabab, lontani ma nemmeno troppo. O forse no, indipendente, o magari con un collante di massima con il sedicente Stato islamico.

Escalation di terrore

Per ora, di concreto c’è solo la furia: “Non è chiaro se si tratti di un gruppo jihadista, ma è certo che agiscono in una zona importante per il Mozambico – ha spiegato a Interris.it Enrico Casale, responsabile della sezione News del sito www.africarivista.it -. Secondo quanto riferito dai missionari presenti nel nord del Paese, gli attacchi sarebbero iniziati nel 2017, sferrati da piccoli gruppi con motociclette e machete. Ora sembra essere stato fatto un ‘salto di qualità’: i terroristi agiscono con jeep e armi automatiche, sufficienti ad avere la meglio su reparti dell’esercito poco attrezzati a far fronte ad attacchi sempre più organizzati”. Una crescita che, di fatto, ha concesso al gruppo di prendere possesso di un’importante area strategica del Mozambico, “anche in virtù del traffico di droga che, dall’Asia centrale, raggiunge l’Europa. Si potrebbero escludere interessi in atto contro le grandi compagnie petrolifere, i cui cantieri sono molto controllati e difficili da attaccare”.

Riverbero wahhabita

Un’escalation di terrore si sta quindi impossessando di Cabo Delgado, sferzato da una recrudescenza wahhabita che ha portato confusione fra una popolazione che, dell’Islam moderato, era stata uno degli esempi migliori. Una crescita nelle radicalizzazioni sulla quale, probabilmente, hanno inciso le condizioni di povertà del Paese e l’idea, sempre più diffusa, di etichettare come “kafir”, gli “impuri”, coloro che all’impostazione salafita anteponevano un Islam tollerante e aperto al dialogo. Esattamente i dettami che Papa Francesco ha ritenuto necessari per far sì che la giovane pace potesse essere accudita nel modo giusto.

Minaccia alla stabilità

Non sembra essere così, almeno per ora, a Mocimboa, Cabo Delgado e in tutte le altre aree attraversate dall’ondata terrorista. “La situazione in Mozambico sta destando preoccupazione a livello internazionale. La Tanzania, Stato confinante, si è già mobilitata per adottare contromisure, così come il Sudafrica, che ha mostrato apprensione anche per via della possibilità che, in gioco, vi siano dei mercenari provenienti dai propri confini. Il tutto resta però nel campo delle ipotesi: non sarebbe saggio avanzare paragoni con Boko Haram o con altre realtà terroristiche africane”. Quel che è certo, è una popolazione smarrita che, travolta dall’inaspettata onda del terrore, sceglie di emigrare verso altri lidi. Una decisione sofferta ma che la dice lunga su cosa significhi vivere sotto la costante minaccia della violenza. Una furia in grado di uccidere, saccheggiare e, ora, persino conquistare. A discapito di una pace ottenuta a fatica e che, negli anni, aveva aperto il Paese all’accoglienza. 

Damiano Mattana

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