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Il Long Covid e le conseguenze sulla società

Secondo uno studio pubblicato su Lancet Psychiatry, fino a una persona su tre che ha avuto il Covid-19 ha sviluppato problemi di salute mentale o sintomi neurologici a lungo termine. Oltre a ciò, si è rilevato che, la prevalenza di ansia e depressione nel mondo è aumentata del 25% durante l’emergenza sanitaria coinvolgendo in maniera significativa anche gli adolescenti. Interris.it ha intervistato su questo tema il Dottor Claudio Marcassoli, psichiatra e psicoterapeuta libero professionista, membro ordinario della Società italiana di Psichiatria, della Società italiana di Psicoterapia medica, della Società Italiana di Psichiatria Forense, della Società Italiana di Criminologia e della Società Italiana di Scienze Forensi, nonché socio ordinario della International Crime Analysis Association e Discussant dell’American Society of Criminology. Egli è autore di pubblicazioni scientifiche di argomento clinico e psichiatrico forense; relatore a congressi nazionali di psichiatria clinica, forense e criminologia. È stato ed è docente di Psichiatria e Psichiatria Forense in svariati atenei e corsi di formazione.

L’intervista

Quali differenze ci sono state tra il periodo del lockdown e quello immediatamente successivo in termini di manifestazione di sintomatologie legate alla particolare situazione che abbiamo vissuto?

“Nella fase del lockdown le persone, pur soffrendo, sembravano non aver manifestato gravi sintomatologie: emergeva nella maggioranza una sorta di capacità di adattamento, si parlava di resilienza, si teneva tutto dentro, si “resisteva”, era il tempo dell’“Andrà tutto bene”, ma già gli studiosi temevano una sorta di “tsunami” post pandemico.  Al termine del lockdown abbiamo assistito a due fenomeni differenti: da un lato una sorta di disagio a uscire da un ambiente “protetto”, come la casa. Si parlava di “sindrome della capanna”, cioè di uno stato di malessere all’idea di uscire nuovamente da casa dopo un periodo protratto di isolamento e distanziamento sociale. E infatti, sembra paradossale, al momento di uscire, dopo il restringimento e l’isolamento sociale, erano emersi sintomi quali: ansia, tristezza, angoscia, mancanza di energia e di entusiasmo, diminuzione della motivazione, senso di solitudine, percezione di essere senza speranza, sentimento di non appartenenza alla società. Accanto a questo un “senso di liberazione”, illusorio dal virus caratterizzato da eccessi di chi si era sentito finalmente “liberato” dalla prigione domestica: eccesso di spostamenti, di rifiuto delle regole, sopra le righe, fino al negazionismo che proprio negli ultimi tempi ha raggiunto livelli molto preoccupanti”.

Cos’ha comportato per quanto riguarda la salute mentale questo lungo periodo di convivenza con il Covid-19?

“Con il passare dei mesi si è poi capito che le cose sarebbero andate per le lunghe e dall’”andrà tutto bene” si è passati al “non torneremo più come prima”. Rispetto a ciò si è avuta evidenza che il virus colpiva non solo il corpo ma anche la mente, e che la salute mentale sarebbe stata messa a dura prova da una situazione assolutamente inaspettata, imprevedibile in una “cultura” in cui l’uomo pensava di poter controllare tutto e di esser immune da rischi di questo tipo. Del resto, le prime analisi psicologiche e comportamentali, considerate allora eccessivamente pessimistiche, ipotizzavano che, nelle persone che erano entrate in contatto con il virus aumentasse fino a cinque volte la probabilità di sviluppare sintomi depressivi e si stimava che nei mesi successivi potessero emergere fino a centinaia di migliaia di nuovi casi di depressione nel mondo. Per non parlare del rischio di suicidio e dell’aumento di condotte alcoliche. L’eventualità maggiore era di sviluppare disturbi post traumatici da stress e disturbi dell’adattamento, oltre ovviamente all’aggravamento di patologie psichiche preesistenti”.

Ora, a quasi due anni dall’inizio della pandemia, qual è la situazione? Cosa ci dicono gli studi in merito?

“Si parla di Long Covid psicopatologico. Al di là dell’emersione di patologie specifiche di tipo postraumatico e dell’asse ansioso depressivo, e dell’aggravamento di patologie pregresse, vorrei parlare di un fenomeno noto ormai come nebbia mentale. Problemi di memoria, confusione, difficoltà a elaborare pensieri: sono alcuni dei principali sintomi del long-Covid: una sorta di deterioramento cognitivo che può durare mesi dopo la guarigione e si può manifestare in tutti i pazienti, anche in quelli meno gravi. Sebbene la maggior parte delle persone con Covid-19 migliori le proprie condizioni e guarisca dall’infezione in poche settimane, la malattia può lasciare numerosi strascichi, a volte così severi da impedire alla persona che ne soffre di ritornare a condurre una vita normale. È quanto emerge ad esempio da uno studio condotto da un team di medici del Mount Sinai Hospital, New York school of medicine. La ricerca, durata da aprile 2020 a maggio 2021, ha evidenziato che circa un quarto delle persone guarite da Covid-19 ha avuto problemi cognitivi, soprattutto relativi alla memoria e alle funzioni esecutive, che si sono protratti a lungo dopo l’infezione e che hanno interessato sia i pazienti ospedalizzati sia quelli che hanno ricevuto assistenza ambulatoriale, sebbene in misura minore.  Possiamo parlare di una sorta di sindrome disesecutiva, ovvero di un’alterazione delle abilità necessarie a un’attività intenzionale e finalizzata al raggiungimento di obiettivi. Tra queste, come leggiamo ad esempio nel lavoro pubblicato su “Jama”, difficoltà nel parlare (che ha colpito circa il 15% dei pazienti) e difficoltà esecutive (il 16%). Circa un quinto dei pazienti totali, poi, presentava difficoltà a elaborare i pensieri e suddividerli in categorie (rispettivamente il 18% e il 20%), e circa un quarto riportava problemi di richiamo e decodifica della memoria (il 23% e il 24% dei pazienti). Uniti a disturbi neurologici quali tremori, formicolii, parestesie, alterazioni sensoriali”.

Quali sono le implicazioni di questo periodo storico sulla qualità della vita delle persone?

“Questo disfunzionamento esecutivo ha notevoli implicazioni per la qualità della vita della persona, sul suo funzionamento psicologico e occupazionale. Sebbene i sintomi cognitivi siano stati evidenziati in tutti i pazienti, lo studio ha evidenziato, come ci si aspetta, che i pazienti ospedalizzati avevano maggiori probabilità di avere disfunzioni nell’attenzione, nel funzionamento esecutivo, nella fluidità delle categorie e nella memoria rispetto a quelli che avevano ricevuto assistenza ambulatoriale”.

Come si può affrontare questo fenomeno?

“È necessario conoscere questo fenomeno per diagnosticarlo e affrontarlo tenendo conto anche di una probabile eziologia di tipo infiammatorio che coinvolge il sistema nervoso centrale e periferico, tranquillizzando il soggetto e proponendo un progetto terapeutico integrato costituito da una supporto psicologico e psicoterapico unito, quando è il caso, ad un intervento farmacologico specialistico”.

Christian Cabello

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