LA VOCE DEGLI ULTIMI

Un inno alla vita nella società della performance

Capita spesso di uscire di casa ogni mattina e non accorgersi dell’albero in fondo alla via, del palazzo dall’altro lato della strada, del cielo azzurro e di quelle sue nuvole dai contorni bizzarri e fantasiosi. In un mondo di fitness, in cui le palestre sono sempre piene, alzare la testa non è più un esercizio abituale. E in un mondo iper-connesso – in cui la tecnologia ci permettete di comunicare gratuitamente con amici sparsi per il globo – non è più così ovvio accorgersi del vicino di casa, del suo stato emotivo, spirituale, economico o fisico. Prendere coscienza di questa limitatezza è già un grande vantaggio ma nel trambusto quotidiano non c’è tempo per quelle che spesso consideriamo cose di poco conto. E mentre ci informiamo sulla crisi ucraina o sugli sviluppi dell’ultimo ritrovamento di documenti riservati in un vecchio garage di Washington, ignoriamo ciò che di bello o meno bello succede a due passi da casa. Incapaci di assumere come rilevante ciò che non ci viene filtrato dai media o dai social.

Avere tutto a portata di mano e non accorgersi di chi siamo e dove andiamo è un male col quale dobbiamo confrontarci. Come non c’è tempo, nel quotidiano affannarsi per il vicino di casa, non ce n’è neanche per le domande fondamentali dell’esistenza. Fino a quando qualche situazione limite non ci porti a scontrarci con la realtà di noi stessi: la nostra fragilità, la nostra finitudine, le nostre aspirazioni più alte, la nostra origine e il nostro destino. Quelle che il filosofo Karl Jaspers definisce “situazioni-limite” non sono altro che il muro contro cui si scontra l’uomo nel naufragio delle proprie certezze, del proprio conforto esistenziale. Una sveglia che suona nel pieno della notte interrompendo il sogno più bello.

Un’esperienza limite simile a quella capitata a Jean-Dominique Bauby nel 1995, giornalista francese, redattore di una delle più note riviste di moda femminile (Elle). La sua vita serena a Parigi fu bruscamente segnata da un improvviso incidente, un ictus che lo portò in poco tempo a uno stato di coma dal quale usci irrimediabilmente compromesso nel fisico. A 44 anni Bauby restò immobile in un letto di una clinica di riabilitazione, nel pieno delle sue facoltà intellettuali ma completamente paralizzato, prigioniero del proprio corpo, quello che la medicina chiama locked-in syndrome.

Immobile, senza la possibilità di parlare ma con la sola capacità di muovere la palpebra dell’occhio sinistro (che chiama “l’oblò del mio scafandro”), Bauby non si rassegnò a terminare i suoi giorni nel silenzio e nella solitudine ma decise di utilizzare l’unico spiraglio rimasto aperto per comunicare col mondo esterno.

Con l’aiuto di un’assistente paziente e precisa (l’ortofonista Sandrine, che definisce un “angelo custode”) e di uno speciale alfabeto ordinato secondo la frequenza delle lettere nella lingua francese, Baudy decide di raccontarsi in un libro. La stesura del libro, intitolato Lo scafandro e la farfalla costò un’immensa fatica e richiese una buona dose di determinazione e costanza. Duecento mila battiti di ciglio, due minuti a parola, composero il testo che fu pubblicato nel 1997 diventando un best-seller internazionale e ispirando, nel 2007, un film premiato dal Festival di Cannes.

Nel libro si mescolano i sogni e i ricordi del passato e le speranze per il futuro. Speranze che Bauby vedrà stroncate dall’improvviso aggravarsi della malattia. Morirà a 45 anni, a dieci giorni dopo la pubblicazione del libro, lasciandoci una testimonianza valida per i nostri giorni. Non solo una testimonianza di umana resilienza (un termine inflazionato in questi anni) ma di vero amore alla vita, di attrazione per tutto ciò che di bello e di vero la vita può offrire fuori dallo scafandro in cui spesso ci troviamo rinchiusi.

Così osservare la spiaggia di Berck sulla Côte d’Opale dalla finestra dell’ospedale – sia durante l’inverno che durante l’estate – diventa una cartolina da immortalare e da regalare o regalarsi. Le strade di Parigi attraversate dopo molti anni per una visita specialistica diventano occasione di ricordi di persone, cose e luoghi rimasti impolverati nella memoria. Vedere “il calar del sole e il faro dargli il cambio” è una consolazione e in mancanza del piacere di mangiare (attività sostituita da una sonda legata allo stomaco), si fa “ricorso alla memoria viva dei gusti e degli odori, un’inesauribile riserva di sensazioni (…). L’arte di cuocere a fuoco lento i ricordi”. Utilizzando, ovviamente, i prodotti migliori. Persino inalare il profumo volgare, “insopportabile ai comuni mortali”, della “puzza di fritto” diventa un lusso, un’esperienza inebriante che fa “fremere di piacere”.

Nella quiete dell’ospedale, lontano dal trambusto quotidiano, Bauby riesce a ritrovare ed ascoltare se stesso. Vaga con la memoria e viaggia con l’immaginazione che “può vagabondare come una farfalla”. Rivive momenti di piacere passati (un bagno caldo “munito di una tazza di tè o di un whisky di un buon libro o di una pila di giornali”); visita luoghi e persone conosciuti “prima che il destino mi trasformasse in uno spaventapasseri” (p. 101).

Al suo letto accorrono i suoi cari, la moglie con i due figli e gli amici più coraggiosi, quelli capaci di attraversare “la gola stretta, gli ultimi metri”, la soglia che separa dal mondo “gli allettati e gli infermi che il destino ha scaraventato ai confini della vita”. Al suo capezzale arrivano anche molte lettere. Bauby volle infatti difendere il suo buon nome di fronte ai pettegolezzi che lo definivano “vegetale”, al fine di provare la superiorità del suo “potenziale intellettuale” rispetto allo snobismo di chi “non sa niente ma dice tutto”. “Così è nata una corrispondenza collettiva che seguo di mese in mese e che mi permette di essere sempre in comunione con coloro che amo. Il mio peccato d’orgoglio ha portato dei frutti”. “Così tutti hanno capito che mi si può raggiungere nel mio scafandro anche se talvolta mi trascina verso i confini di terre inesplorate” (p.  80). Molte di queste lettere, conservate come un tesoro, “raccontano nella loro semplicità i piccoli fatti che puntualizzano il fuggire del tempo. Rose colte al crepuscolo, l’indolenza di una domenica di pioggia, un bimbo che piange prima di dormire. Presi dal vivo, questi campioni di vita, queste folate di benessere mi toccano più di ogni altra cosa”.

Così come lo toccano le molte preghiere che ad ogni latitudine vengono elevate per la sua guarigione. Preghiere a “diverse divinità”, perché molte sono le persone di diverse religioni che hanno assicurato preghiere e offerte nei propri paesi. Con l’ingenuità di chi non ha fede, e con la leggerezza e l’ironia di chi non vuol prendere le cose sul serio, Bauby affida le sue membra alle diverse divinità interpellate da amici e conoscenti. Per i problemi dell’udito si affida alla suocera, “cattolica dal cuore pio”, che ha chiesto preghiere ad un monastero cistercense. Sono le uniche preghiere che secondo l’autore hanno dato un “segnale”: “il giorno in cui i sette frati dello stesso ordine furono sgozzati dai fanatici islamici, ho avuto mal d’orecchie per parecchi giorni”. Si riferisce ai beati martiri di Tibirine assassinati nel 1996. Ma la preghiera più potente è quella che la figlia Céleste eleva a Dio ogni sera: “meraviglioso viatico” che gli permette di dormire sogni tranquilli.

Quella di Jean-Dominique Bauby è l’esperienza di chi si risveglia alla vita nel momento più nero della propria esistenza, di chi scopre la bellezza di vivere trovandosi sulla soglia del non-essere e nel buio del non-senso. Un invito ad uscire dagli scafandri che ci impediscono di apprezzare ciò che abbiamo e che viviamo e dall’arroganza di chi considera che tutto sia scontato, o peggio, dovuto.

È altresì un inno alla vita in una società come quella in cui viviamo. Società del fitness e della performance in cui una vita lontano dagli standard convenzionali non appare degna di essere vissuta. Una chiamata a rispettare e difendere la vita fino all’ultimo istante del suo percorso terreno.

Miguel Cuartero Samperi

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