Ucraina, Russia e Vaticano: le parole del card. Parolin indicano la strada da seguire

Tesi e nervosi come siamo, lì fermi ad aspettare la buona notizia che l’Ucraina vuol fare la pace con la Russia e la Russia vuol fare la pace con l’Ucraina, quasi quasi non ci accorgiamo che questa guerra – maledetta, sanguinaria, inutile e criminale – sta cambiando molte cose, e le cambierà anche al di là dell’avvenire di Vladimir Putin o del Donbass e del Luhansk. I dieci mesi del conflitto hanno radicalmente stravolto tutti i punti fermi delle relazioni internazionali degli ultimi trent’anni. Quelli emersi dalle macerie del Muro di Berlino, per intenderci: quindi non si tratta di cose da poco.

La Russia ha ripreso la politica zarista: al di là della sua prevedibile sconfitta (chissà quando) non rinuncerà a reagire nei decenni alla perdita dell’impero interno. Non facciamoci illusioni: se non si escogiterà per lo meno una Conferenza di Locarno, quella con cui nel 1925 venne chiusa definitivamente con la Germania la questione dell’Alsazia e della Lorena, prima o poi rivedremo le armate in azione.

Gli Stati Uniti non sono più la Superpotenza Solitaria che piaceva tanto a Clinton e Bush Jr. Di ritorno al multipolarismo parlava già Obama all’inizio del suo primo mandato e ora Biden, con un approccio più pragmatico, ribadisce il concetto pur senza esplicitarlo troppo. Persino il neoisolazionismo pasticcione di Trump è andato in questa direzione.

Verrebbe da dire, e lo dicono infatti in molti, che il futuro si giocherà in Asia e contro la Cina. Facile a dirsi: già lo teorizzava Clinton. Ugualmente ci permettiamo il dissenso.
Dissentiamo perché Kherson è, metaforicamente ma non troppo, la nuova Stalingrado, il luogo dell’assedio che segna l’inverno della civiltà europea, il punto di non ritorno di uomini e mezzi e destini. Il crogiolo da cui scaturisce, nella sconfitta dell’aggressore, il nuovo ordine europeo. E l’Europa, vecchia signora cui tutti danno poche chance di vita ma intanto regge alle Brexit e persino agli scandali qatarini, torna al centro delle relazioni internazionali: sia nella sua parte più prospera e serena, sia nella sua metà che ancora ne rimane fuori, al freddo.

Insomma, si pensi al futuro e non ci si fossilizzi sul presente. Il Vaticano – mossa con pochi precedenti – chiede scusa per certe frasi del Papa su ceceni e buriati e così facendo la Storia si rimette in moto, la Russia ha poche scuse per tenere il muso e l’Ucraina ancor meno spazio di manovra per puntare i piedi. Se si parla di Storia di nuovo in movimento è perché le menti lucide ora pensano già al dopo. Alcune, per l’appunto, lucide. Altre meno. Pochi giorni fa il segretario di Stato, Pietro Parolin, ha dato il viatico allo sblocco dei rapporti con la Russia con un lungo discorso all’ambasciata italiana presso la Santa Sede. Ha indicato la strada: una nuova Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa come quella della metà degli anni ’70. Il Vecchio Continente scoprì di essere una cosa sola, e non due metà spaccate di una mela: ne sarebbe nata la Primavera dei Popoli di una quindicina d’anni più tardi.

Parolin dà a vedere di partire da un presupposto: la guerra ucraina (con le sue minacce nucleari, con la rinascita del confronto Est-Ovest caro agli storici) rimette al centro della partita la regione che va dall’Atlantico agli Urali. Era quella, per intenderci, in cui Gorbaciov voleva costruire una casa comune per gli europei. Non fosse stato a capo del regime bolscevico gli sarebbe probabilmente riuscito e lui sarebbe visto ora come uno dei grandi leader del Novecento; invece è morto semi misconosciuto. Ma non importa, quello che semplicemente si intuisce oggi potrà essere fatto domani, ed ecco che Parolin rilancia il multilateralismo, quindi il ruolo delle Nazioni Unite umiliate dopo il 2003; pensa ad una koiné più che a vincitori e vinti; indirettamente ma chiaramente indica nel sistema democratico la formula vincente per il futuro, sempre che si realizzi una maggiore giustizia sociale dentro e fuori le democrazie. I diritti dell’uomo sono, esattamente come indicato a Helsinki tanto tempo fa, la cifra per misurare l’autorevolezza e l’affidabilità dei governi e di chi li guida. Insomma, il rovesciamento dei canoni invalsi proprio all’indomani del fatidico e travisato 1989.

Purtroppo non mancano i segnali opposti. Mentre Parolin parlava, a Westminster prendeva la parola il ministro degli esteri britannico. Stentiamo a ricordarcene il nome di primo acchito: troppi ve ne sono stati nell’ultimo anno e mezzo. Si dovrebbe chiamare James Cleverly. Ha enunciato le linee guida del ruolo della Britannia post Brexit nel mondo post guerra ucraina. In sintesi: comunità internazionale liquida in cui di volta in volta, sui singoli temi, si cercano alleanze – soprattutto con le economie emergenti di Asia e Africa – per ampliare gli spazi dei mercati. Diritti umani e tenuta democratica sono un optional. Londra come hub di una fitta rete di relazioni che, a noi, più che relazioni sembrano intrallazzi tra governi. La comunità internazionale polverizzata, la morte definitiva delle Nazioni Unite attraverso l’allargamento del Consiglio di Sicurezza – mossa di una perfidia persino affascinante – ad una lunga serie di paesi che lo trasformerebbero in un forum un cui non si decide più nulla e si paralizzano reciprocamente le varie potenze e tutta la comunità internazionale.

Il problema, in sintesi, è uno: cosa fare di un ordine mondiale che stenta a nascere dalle macerie della Fine della Storia che ieri illusero l’America ed oggi seducono Albione. Le risposte, finora, sono state due, e sono inconciliabili. Ma se qualcosa dobbiamo imparare dalla crisi scatenata da Putin il 24 febbraio scorso, è che non c’è più spazio per i sogni di gloria di medie potenze che ancora si sentono imperi, o di imperi che temono di scivolare tra le medie potenze. Abbiamo la più grande occasione per creare un nuovo sistema di relazioni internazionali, con l’Europa al centro, degli ultimi decenni. Cerchiamo di non sprecarla.