Si celebra oggi la “Giornata internazionale per il ricordo della Tratta degli schiavi e della sua abolizione”, istituita, il 29 luglio del 1998, con una circolare del direttore generale dell’UNESCO, Federico Mayor, nella quale invita i Ministri della Cultura di tutti gli Stati membri a organizzare, il 23 agosto di ogni anno, una serie di eventi al fine di celebrare questa ricorrenza, con il coinvolgimento dell’intera popolazione e, in particolare, di giovani, educatori, artisti e intellettuali. Per la prima volta fu organizzata a Haiti e a Gorée, in Senegal, “l’isola degli schiavi”, proclamata dall’UNESCO, nel 1978, patrimonio dell’umanità, per il suo forte valore evocativo e simbolico, perché per ben quattro secoli è stata il più grande centro della tratta degli schiavi della costa occidentale dell’Africa.
Il 22 febbraio del 1992 Giovanni Paolo II visitò la sua “Maison des esclaves”, pronunciando un discorso coraggioso: “Qui si vede soprattutto l’ingiustizia. È un dramma della civiltà cristiana […]. Sono venuto a rendere omaggio a tutte le vittime sconosciute. […] Purtroppo la nostra civiltà che si diceva e che si dice cristiana, è tornata per un momento, anche durante il nostro secolo, alla pratica della schiavitù. Sappiamo cosa furono i campi di sterminio”. Affermazione quanto mai fondata. Tutte le confessioni cristiane dei paesi euro-atlantici furono coinvolte in forma concorrenziale e talvolta collaborativa nella tratta degli schiavi: i cattolici del Portogallo e della Spagna; i calvinisti dell’Olanda; i luterani della Svezia; gli anglicani dell’Inghilterra.
Nella notte tra il 22 e il 23 agosto del 1791, nella temperie della Rivoluzione francese, nella piccola colonia francese di Saint Dominique, la parte orientale dell’isola caraibica Hispaniola, una rivolta di schiavi (500 mila afroamericani contro i 25 mila bianchi), portò in pochi anni alla fine della schiavitù e alla formazione del secondo Stato indipendente delle Americhe.
La paura del contagio portò all’isolamento del nuovo Stato indipendente che assunse il nome di Haiti ma indubbiamente la rivolta svolse un ruolo cruciale nell’abolizione della tratta transoceanica degli schiavi. La Danimarca l’abolisce nel 1792, gli Stati Uniti nel 1808, l’Olanda nel 1814, la Svezia e la Francia nel 1815, anche se illegalmente, soprattutto verso il Brasile e Cuba, proseguì fino agli ultimi decenni del secolo. Per diversi decenni finisce, almeno legalmente, la tratta ma non la schiavitù degli afroamericani, specie di quanti erano occupati nelle piantagioni.
Premessa della “Giornata internazionale per il ricordo della Tratta degli schiavi e della sua abolizione” è il Progetto UNESCO “Route of Enslaved Peoples: Resistance, Liberty and Heritage”, più noto come “Slave Route”, lanciato quattro anni prima, nel Benin, al fine di produrre conoscenze innovative, con reti scientifiche di alto livello, in grado di promuovere iniziative di memoria sul tema della schiavitù, la sua abolizione e la resistenza che ha generato. A livello internazionale il progetto ha, quindi, svolto un ruolo importante nel rompere il silenzio che circondava la storia della schiavitù e collocare nella memoria universale questa tragedia che ha plasmato il mondo moderno, analizzandone cause, metodi, conseguenze e interazioni tra Africa, Europa, Americhe.
Tra queste conseguenze anche quelle demografiche: l’Africa, che all’inizio del 1500 aveva una popolazione superiore all’Europa, nel corso dei quattro secoli successivi vive una lunga epoca di sostanziale stasi demografica, per la sottrazione plurisecolare delle sue energie più vitali e, nell’Ottocento, in più, dell’impatto terribile del dominio coloniale sull’intero continente. L’Europa nello stesso periodo vede la sua popolazione crescere di ben cinque volte, oltre a riempire di se, con le migrazioni transoceaniche, interi continenti.
La segretaria generale dell’UNESCO, la bulgara Irina Bokova, nel messaggio del 2013, ha scritto: “Attraverso le loro lotte, il loro desiderio di dignità e libertà, gli schiavi hanno contribuito all’universalità dei diritti umani. Dobbiamo insegnare i nomi degli eroi di questa storia, perché sono gli eroi di tutta l’umanità. Nel rendere omaggio, il 23 agosto di ogni anno, alle donne e agli uomini che hanno combattuto quest’oppressione, l’UNESCO desidera stimolare la riflessione e il dibattito su una tragedia che ha segnato il mondo di oggi”.
La “Giornata internazionale per il ricordo della Tratta degli schiavi e della sua abolizione”, rapidamente ha assunto un più ampio significato. Lo possiamo constatare nelle parole del messaggio inviato ai ministri della cultura di tutti gli Stati membri dell’UNESCO, il 1° agosto del 2022, dalla nuova giovane segretaria generale, Audrey Azoulay, francese di prima generazione, di una famiglia ebrea-marocchina. Ha scritto: “È tempo di abolire lo sfruttamento umano una volta per tutte e di riconoscere la dignità uguale e incondizionata di ogni individuo. Oggi ricordiamo le vittime e i combattenti per la libertà del passato in modo che possiamo ispirare le generazioni future a costruire società più giuste”.
La storica Patrizia Del Piano, nel bel libro, “La schiavitù in età moderna” (Laterza 2011), ne ha ricostruito le origini, il consolidamento e il declino, fra l’Africa, le Americhe e l’Europa, documentando come essa abbia segnato l’Occidente e riflettendo anche come le modalità con cui si realizzò l’abolizione abbia aperto la strada a nuove forme di dipendenza personale.
A questo si aggiunge il massiccio fenomeno in crescita delle cosiddette nuove schiavitù contemporanee (restrizioni delle libertà personali, quali il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale). Nel 2021 l’Organizzazione internazionale del lavoro, Walk Free e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, hanno congiuntamente un rapporto, “Global estimates of Modern Slavery: Forced Labour and forced Marriage” (“Stime globali della schiavitù moderna: lavoro forzato e matrimonio forzato”).
Si documenta che ben 50 milioni di persone vivono in condizioni di schiavitù moderna: 28 milioni sono costretti al lavoro forzato e 22 milioni al matrimonio forzato, non solo dipendente da consuetudini e pratiche patriarcali consolidate nel tempo. L’incidenza reale dei matrimoni forzati, in particolare quelli che coinvolgono minori di 16 anni o meno, è probabilmente molto più alta di quanto registrato dalle stime attuali, che si basano su una definizione maggiormente ristretta e non includono tutte le tipologie di matrimoni infantili. I matrimoni infantili sono considerati forzati perché un bambino non può dare legalmente il proprio consenso al matrimonio.
Secondo la Convenzione sul lavoro forzato e obbligatorio dell’Organizzazione internazionale del lavoro, del 1930, pur approvata da quasi tutti gli Stati, lavoro forzato è definito “ogni lavoro o servizio estorto a una persona sotto minaccia di una punizione o per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente”. La maggior parte dei casi di lavoro forzato (86 %) si registra nel settore privato. Al suo interno ben il 23% è costituito dallo sfruttamento sessuale ai fini commerciali: quattro su cinque delle vittime sono donne. Una percentuale non irrilevante del lavoro forzato, il 14%, è imposto dagli Stati.
Ulteriore dato inquietante: quasi uno su otto di tutti i lavoratori forzati sono bambini (3,3 milioni) e più della metà di essi sono vittime di sfruttamento sessuale a fini commerciali. I migranti, infine, sono particolarmente vulnerabili al lavoro forzato.
La celebrazione della “Giornata internazionale per il ricordo della Tratta degli schiavi e della sua abolizione” deve certamente conservare e approfondire ulteriormente la memoria della tragedia immane della plurisecolare tratta degli schiavi ma anche, come giustamente l’UNESCO ci sollecita a fare, a conoscere e combattere, parafrasando il titolo del libro summenzionato di Patrizia Del Piano, il terribile presente flagello della “schiavitù contemporanea”.
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