Recovery fund: un’occasione per la famiglia

Nel “Decreto Rilancio”, approvato in questi giorni, si disegna una nuova Italia, più verde, inclusiva, digitale, attrezzata a programmare in modo nuovo e concreto il suo futuro. Strettamente collegato a questo piano di ripresa c’è la questione dell’accesso ai fondi previsti nel cosiddetto Recovery fund: un bel pacchetto di miliardi di euro da destinare a capitoli di spesa pubblica che garantiscano la ripartenza. Ciò che lascia perplessi – ma sarebbe più corretto dire, lascia sconcertati – è la totale assenza del riferimento a politiche di investimento dei fondi europei per il rilancio economico della famiglia.

In verità nei giorni scorsi ci è stato promesso che attraverso lo strumento del “Family Act”, il governo predisporrà un sistema di sostegno alla famiglia attraverso il cosiddetto “assegno universale”, cioè una quota di reddito per ciascun figlio, dal settimo mese di gravidanza al compimento del 21° anno di età, con una modulazione parimetrata su criteri che conosceremo meglio più avanti. Il costo di questo progetto è calcolato in 7,5 miliardi di euro, circa, che per il momento non sono nella disponibilità delle casse italiane. Dunque, in pratica, si tratta di una sorta di promessa, una dichiarazione d’intenti certamente positiva, ma che non produce ad oggi nessun beneficio per la famiglia. Sorge, dunque, naturale e lecita una domanda: perché non attingere al recovery fund?

Certamente sette miliardi sono una bella cifra, ma che cosa fa il “buon padre di famiglia” quando deve decidere le priorità di spesa? Fa un elenco e mette ai primi posti le voci indifferibili. Ebbene, la famiglia, con tutte le problematiche ad essa connesse, non può che essere ai primissimi posti per il rilancio del “sistema” Italia. Non dobbiamo mai stancarci di ripetere – perché non è altro che la verità – che rilanciare la famiglia significa rilanciare il Paese e, per converso, se non riparte la famiglia non riparte il Paese. Se abbiamo l’onestà di guardare con chiarezza la stessa storia del recente lockdown, la gran parte del peso sociale, economico e perfino sanitario di questa tragica emergenza se l’è caricato sulle spalle la famiglia, affrontando sacrifici di ogni genere. Negli ultimi tempi è diventato cult parlare di “resilienza”: bene, la famiglia – padre, madre, bimbi e nonni – è stato il fattore “resiliente” che ci ha consentito di non rimanere schiacciati.

Gli aneddoti e gli esempi concreti sarebbero milioni e, certamente, ognuno di noi ha un bell’elenco di testimonianze da narrare. Sta di fatto che la vita ha continuato a scorrere e il tessuto sociale non è imploso grazie a padri e madri che si sono “riciclati” in tutti i ruoli necessari per far fonte alle infinite necessità vitali di bimbi e nonni. Abbiamo visto mamme e papà trasformati in insegnanti, elettricisti, falegnami, infermieri, badanti, barbieri, fisioterapisti; perfino la Chiesa ha toccato con mano quanto sia importante sostenere, aiutare, proteggere la “chiesa domestica”, con i genitori al centro nel ruolo di catechisti, didascali, padrini nella e della fede, giungendo anche all’accompagnamento dell’ultimo respiro. La famiglia naturale è il perno della società non solo sulla base di criteri valoriali, ma anche in quanto vero ed unico antidoto a quel virus letale che sta decimando il nostro Paese: la denatalità. Non ci sarà nessuna vera ripresa economica, nessun rilancio, senza un piano di incentivazione demografica.

La demografia è impietosa, sono numeri e non parole, promesse o auspici: 425 mila nascite nel 2019, minimo storico, con l’aggravante che se non si interviene subito, con liquidità vera utilizzando il recovery fund, questa emergenza COVID peggiori ulteriormente questa drammatica criticità. Il numero degli ultra ’80 ha superato il numero dei nuovi nati, il rapporto lavoratori/pensionati è ormai alle soglie del 1:1, il PIL senza nuove generazioni non crescerà mai e le culle vuote sono il segno tangibile di un Paese – e di governi – che sono incapaci di pensare al futuro. Tutti insieme dobbiamo avere coscienza che se si vuole che il treno riparta, il binario del nuovo viaggio ha due rotaie, entrambe indispensabili: misure economiche, fiscali, sociali (assegno universale, fiscalità secondo il quoziente familiare, conciliazione lavoro-famiglia, contributi figurativi, flessibilità, part-time reversibili e congedi parentali adeguati), ma un altrettanto chiaro cambio di rotta culturale che dia valore alla scelta di “metter su casa”, di fare una famiglia, di fare figli, di mostrare con orgoglio e onore la bellezza della genitorialità, maternità e paternità. Finché il trend culturale propone la procreazione come un di più, un fatto esclusivamente privato, quando non un lusso per pochi o, peggio, una sorta di prigione esistenziale che limita la libertà del singolo, donne in primis; fino a quando mettere al mondo una nuova vita è presentato come una scelta per “sfigati” e si profondono a piene mani risorse per incentivare gli aborti, mentre non si dà un solo euro per fare in modo che possa nascere un bimbo in più (ricordiamoci che siamo il Paese con oltre sei milioni di aborti, e non un solo progetto di tutela della maternità come vorrebbe la stessa legge 194), fino a quando si allocano 200 milioni per monopattini e si scrivono leggi regionali che garantiscono la pillola abortiva a casa, mentre la voce “aiuto alla natalità” rimane un sacco vuoto di fondi, non si rilancerà proprio nulla, si metteranno cerotti su ferite profonde, si somministrerà aspirina ad una società che ha il cancro.

Il “recovery fund” è un’occasione da non perdere per riposizionare la famiglia nel ruolo di motore della società che le compete. A partire da oggi, perché con le promesse per il domani non si rilanciano ne occupazione ne consumi. Ogni giorno che passa è un giorno perso e, come dice il proverbio, non è mai saggio rimandare a domani quello che si può fare oggi.