Il modello virtuoso della campagna vaccinale britannica

Fin dall’inizio il Regno Unito nell’area europea ha rappresentato un esempio virtuoso della campagna di vaccinazione. Ciò ha consentito ha consentito alle autorità sanitarie britanniche di piegare la curva dei contagi, dei ricoveri e dei decessi. In un anno nel Regno Unito rappresentava record negativi ancora in febbraio (120.000 morti cumulativi!), a fine marzo il 54% della popolazione, pari a 28 milioni, risultava vaccinato.

Con il coinvolgimento dell’esercito, con perfetta organizzazione digitalizzata e coordinamento centrale, il 95% degli ultra 65enni ha ricevuto la prima dose con rigoroso rispetto delle priorità per età e soggetti fragili. In tal modo alla fine di marzo si è registrato da 0 a poche decine di decessi e di ricoveri nei reparti Covid, dove ancora a gennaio si registravano picchi di 5.000 casi giornalieri. Rispetto all’Italia va detto che il Regno Unito è stato fortemente agevolato per quanto riguarda l’approvvigionamento di vaccini, avendo sostenuto la ricerca di un vaccino proprio (Università di Oxford) e avendo prenotato le dosi in anticipo, quando non ne era ancora accertata l’efficacia, già nel maggio 2020 (l’Europa in agosto). Inoltre, l’EMA ha registrato un mese dopo rispetto a MHRA, l’ente regolatorio britannico. I risultati della vaccinazione nel Regno Unito, assolutamente brillanti, sono stati ottenuti anche grazie alla decisione di vaccinare con la prima dose del vaccino AstraZeneca il maggior numero di soggetti. L’efficacia dopo la prima dose è risultata dell’ordine del 70/75% e, con una riduzione del 30%, viene mantenuta anche vs la “variante inglese” (ridenominata “variante Alfa” dal 31 maggio).

In Europa si è ritenuto di rispettare la schedula vaccinale delle 2 dosi, salvo che per i guariti da Covid, per i quali è stabilito l’impiego di una sola dose booster. A seguito della revisione degli eventi avversi da parte dell’EMA, i Paesi scandinavi hanno deciso di non utilizzare Vaxzevra e la più parte dei Paesi europei, fra cui l’Italia, di “sconsigliarne” l’impiego a soggetti con meno di 50 anni. Anche il Regno Unito non raccomanda più l’impiego al di sotto di 50 anni e ha arrestato la sperimentazione nell’età pediatrica. La FDA statunitense non ha inteso di registrare questo “problematico” vaccino. Tuttavia, va detto che questo vaccino ha caratteristiche (conservazione in frigorifero a temperature di 2°-8 °C, basso costo) che lo fanno preferire ai vaccini a mRNA per campagne vaccinali nei Paesi a basso e medio reddito.

La pandemia di COVID-19 si è diffusa con estrema velocità e pervasività. Fortunatamente la letalità e anche la frequenza di forme critiche di malattia (che richiedono il ricorso alla terapia intensiva) sono limitate al 5% circa delle infezioni. È vero che il virus causale, SARS-CoV-2, colpisce “a caso”, quando incontri le occasioni favorevoli di trasmissione, e che queste forme gravi di malattia possono interessare tutti, ma, di fatto, la letalità si concentra in alcune popolazioni “a rischio”, che quindi vanno specialmente protette.

Abbiamo acquisito dati sufficientemente precisi che consentono di definire queste popolazioni speciali a rischio. L’età è un fattore indipendente di rischio. Il massimo rischio di letalità è nell’età avanzata, oltre 70 anni. I bambini e gli adolescenti fino a 20 anni sono a debole rischio di malattia grave. Tuttavia anche i bambini trasmettono l’infezione: il dato è di particolare importanza per la diffusione del contagio, specie nei rapporti con genitori e parenti anziani. L’età avanzata con comorbosità è il maggiore fattore di rischio. D’altronde, l’età si accompagna frequentemente con la presenza di malattie croniche cardiovascolari, diabete, ipertensione, broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) e tumori. Si valuta che queste siano presenti nel 65% dei soggetti di oltre 70 anni. Il genere maschile è più a rischio rispetto alle donne per malattia grave e per letalità (2,1% vs 1,6%). Anche l’obesità (Body mass Index ≥ 30) è un potente fattore di rischio (è appannaggio in Italia di circa il 20% della popolazione). I pazienti immunocompromessi, per condizioni patologiche, per chemioterapia antitumorale o per trapianto d’organo, rappresentano una popolazione vulnerabile con un 20% di rischio aggiuntivo (che peraltro va bilanciato con il rischio di interrompere la chemioterapia).