La giustizia non è uno show

La subculura giudiziaria nel nostro Paese è, ormai da tanti anni, influenzata dai telefilm “legal-thriller” americani, storie ambientate in un luogo che è tra le indagini ed il processo, ove i protagonisti sono normalmente poliziotti, avvocati, pubblici ministeri, giudici. E trattandosi di vicende di fantasia radicate in un diverso ordinamento, le regole di ricerca delle prove e del processo sono profondamente diverse dalle nostre.

Ma, purtroppo, di questo non ci si rende conto; ciò che si vede in televisione penetra maliziosamente nelle nostre menti, modella subdolamente il nostro modo di pensare e di atteggiarsi, ci induce in atteggiamenti quasi spontanei, istintivi, facendo cadere quella parte di razionalità che dovrebbe spingerci a chiedere cosa dovremmo realmente fare, come dovremmo comportarci.

Il problema non riguarda tanto espressioni che diventano ridicolevostro onore è una espressione inesistente nel sistema italiano dove il giudice si chiama giudice ed il presidente di un collegio presidente, così, semplicemente – ma soprattutto lo sguardo con il quale si valuta l’operato dei tecnici del diritto.

Tutti sembrano esperti di tutto, il tecnicismo della materia sfugge e la superficialità trionfa. Le indagini si confondono con il processo, il pubblico ministero con la polizia, il giudice con la giuria che, tranne in rari casi, nel sistema europeo non è prevista, ed in quelle occasioni sempre presieduta da un magistrato di carriera.

Proprio quest’ultima situazione va esaminata. Nel processo americano la colpevolezza o la innocenza dell’imputato viene decisa da un gruppo di soggetti che non deve conoscere il diritto e che emetterà un verdetto. In Europa, per la verità in gran parte del mondo, la decisione sarà presa da un giudice professionale, singolo o collegiale a secondo della gravità del fatto, che emetterà una sentenza.

Il verdetto non dovrà esser spiegato, la giuria rappresenta il popolo, la sentenza, invece, avrà un dispositivo – assoluzione o condanna ed in tal caso la  misura della pena inflitta – ed una motivazione che chiarirà quali siano state le leggi prese in considerazione e quali le valutazioni delle prove. Motivazione che, proprio perché dovrà seguire un percorso logico, potrà esser sottoposta al controllo di giudice professionale superiore.

Oggi, purtroppo, sembra che tutto si confonda, che chi entra in aula sia convinto di sapere le regole del processo, che chi segue dall’esterno una vicenda penale abbia la capacità di giudicare le prove, senza neanche capire, per utilizzare una espressione tecnica che anche uno studente del primo anno di giurisprudenza conosce, quale elemento di conoscibilità processuale sia utilizzabile e quale no.

La indicazione del “quinto emendamento” sta ad indicare una regola che tutti conosciamo, quella del divieto di dichiarazioni autoaccusatorie, che, però è nella Costituzione americana dove, differentemente dal nostro sistema, l’imputato può esser chiamato a testimoniare nel processo a proprio carico.

E su questa confusione, frutto di superficialità ed arroganza, si innestano trasmissioni televisione che scimmiottano processi veri, con giudici che giudici non sono, giurie riprese mentre discutono come in un film con componenti che, per mettersi in mostra davanti alle telecamere, recitano più che valutare i fatti, attori che danno vita a soggetti processuali.

Viene da dire che non siamo lontani dal momento in cui il giudice, che dà la decisione dopo la pubblicità, farà anche una pausa bevendo l’acqua dello sponsor prima di “rivelare” la decisione. Ma purtroppo tutto questo non passa senza causare danni.

La banalizzazione di una complessa attività, forse la più difficile, quella di giudicare altri uomini, non si presenta senza gravi danni. Tutti oggi credono di saper decidere della liceità o meno di comportamenti di altri, di saper selezionare le prove, di poter indicare chi ha ragione e chi ha torto senza conoscere le regole processuali. In questo humus crescono demagoghi che vogliono cambiare il sistema dei controlli giurisdizionali, sottoporre i giudici al controllo politico, condizionarne le valutazioni.

L’uso disinvolto dei mass media, su tutto delle televisioni, è lo strumento a cui ci si affida per “picconare” la legittimazione della magistratura professionale e degli avvocati, oltre che delle forze di polizia. Occorre, allora, riflettere e razionalizzare non tanto che un telefilm è solo un racconto in cui la fantasia dell’autore può avere tutte le licenze dell’inventiva, ma che l’attenzione deve esser alta nel valutare racconti distorti di fatti processuali, narrazioni romanzate di “docufilm” recitati da attori sceneggiati con sapienza, sequenze procedimentali colorite  con occulte suggestioni ed indicazioni subliminali. Oggi come mai prima è in gioco la tenuta di un sistema di controlli di legalità che si vorrebbe tanto controllare dall’esterno della Magistratura.

Paolo Auriemma – Procuratore capo di Viterbo