Accordo sui licenziamenti tra Governo e sindacati: il primo della fase di riavvio?

L’accordo raggiunto nella serata dello scorso 29 giugno, a Palazzo Chigi su una proroga selettiva del blocco dei licenziamenti, l’aggiunta di ulteriori 13 settimane di Cassa integrazione gratuita per tutte le imprese in crisi, la stipula di un Avviso comune tra Cgil, Cisl, Uil e parti datoriali per impegnare le imprese ad utilizzare tutti gli ammortizzatori sociali e istituti similari prima di arrivare al licenziamento e l’avvio di un tavolo di verifica dello stesso accordo, è stato un passo positivo.

La situazione è eccezionale ed ha bisogno di risposte all’altezza dei rischi che si corrono. Più volte, come sindacato, abbiamo evidenziato che uno sblocco di tutti i licenziamenti avrebbe portato rischi di conflitti sociali elevati e quindi questo accordo tra Governo e parti sociali rappresenta una comune assunzione di responsabilità. Va ricordato che dall’inizio della Pandemia e del lockdown, praticamente da marzo 2020, sindacati e imprenditori hanno svolto un ruolo fondamentale per permettere a moltissime imprese di poter continuare a lavorare, grazie agli accordi sui Protocolli anti contagio, riaggiornati ad aprile di quest’anno con anche un nuovo Protocollo sulle vaccinazioni nei luoghi di lavoro.

È stato un percorso importante, scarsamente valorizzato, che ha dimostrato l’esistenza di un sistema di relazioni industriali mature e pronte a rispondere, attraverso la contrattazione, allo shock causato dalla pandemia. L’accordo di fine giugno è quindi un prosieguo dei precedenti e però dovrebbe anche essere il primo della fase di riavvio delle attività e del Paese intero, nonostante che all’indomani ci sono state delle imprese che hanno immediatamente avviato i licenziamenti, a dimostrazione dell’importanza del blocco.

La ripartenza mette sul tavolo, oltre gli effetti sull’impatto del Covid19, anche però i soliti vecchi problemi del mercato del lavoro italiano. Se, come scrivono molti osservatori, solo l’Italia ha avuto un blocco generalizzato dei licenziamenti, è altrettanto vero che l’Italia ha un mercato del lavoro farraginoso, poco trasparente, con un livello patologico di nero che non ha eguali in quasi tutta l’Unione Europea e una sostanziale assenza di politiche attive. Inoltre nonostante il blocco si sono comunque persi intorno ad 1 milione di posti di lavoro, perché non sono stati rinnovati gran parte dei contratti a termine. La crisi causata dalla pandemia non è stata uguale per tutti ed ugualmente la ripresa non sarà uguale per tutti. Da questa ovvietà deve discendere un approccio complesso che tenga conto della diversità sostanziale tra settori economici ma anche tra lavoratori, dovuta sempre al settore economico di riferimento ma anche al grado di occupabilità delle singole persone.

Veniamo alla questione delle politiche attive del lavoro, mai avviate nella realtà, con l’aggravante della profonda ed ormai inammissibile disomogeneità tra sistemi regionali dei servizi all’impiego. La pandemia ha ulteriormente dimostrato che purtroppo tra le Regioni non c’è una competitività con l’obiettivo di essere migliore l’una dell’altra bensì c’è una gara ad alzare confini e steccati e creare particolarità per pure logiche di potere, che nulla giovano ai semplici cittadini e tanto meno ai giovani che ne subiscono gli effetti negativi, a cominciare dall’avere regole diverse per ciascuna regione su moltissimi temi comuni.

La questione delle politiche attive diviene ancor più centrale dovendoci confrontare nei prossimi mesi ed anni con le cosiddette transizioni gemelle, quella digitale e quella ecologica. È inutile dibattere ancora sul diverso ruolo e sulla primazia tra pubblico e privato, i Centri per l’impiego e le agenzie private devono collaborare sempre di più tra di loro per accompagnare i lavoratori in percorsi di riqualificazione ed adeguamento delle competenze e magari di riallocazione in settori economici diversi. Al centro delle politiche attive devono esserci le persone con i loro bisogni, non preoccuparsi, come avvenuto finora, su chi fa che cosa e chi comanda, con il risultato che è tutto fermo o quasi.

Non va inoltre sottovalutato l’Avviso comune che riteniamo sottenda alla necessità di un salto di qualità di tutta l’imprenditoria, in particolare riguardo agli aspetti organizzativi e di gestione delle risorse umane. L’impegno delle imprese ad utilizzare tutti gli strumenti istituzionali e contrattuali a disposizione e previsti dalla legge (es: cassa integrazione, ma anche contratti solidarietà difensivi ed espansivi, intese di riduzione/rimodulazione orario di lavoro) dovrebbe essere uno stimolo ad una rilettura della propria organizzazione del lavoro ed a un approccio proattivo rispetto alle relazioni industriali. Per far questo occorre che la cultura imprenditoriale consideri le persone una vera e propria risorsa delle aziende e non solo una voce di costo. Questo problema fa il paio con un’altra questione di fondo del sistema imprenditoriale italiano e cioè la piccola e piccolissima dimensione delle imprese, questione che fa sì che hanno più occupati i bar del centro delle grandi città che non molte imprese manifatturiere che magari esportano pure.

Ma questo della dimensione è un tema sollevato da moltissime ricerche, a cominciare dalla Banca d’Italia. Occorre puntare ad una maggiore qualità per il lavoro. La qualità del lavoro però ha molti aspetti, dall’applicazione e il rispetto di regolari contratti di lavoro, dagli investimenti su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro alla valorizzazione delle capacità e delle potenzialità del lavoratore. Questo vale in particolare proprio per i giovani. Non si può negare che una delle cause della cosiddetta “fuga dei cervelli” dipenda proprio da questo. La Banca d’Italia lo ha scritto in diverse ricerche ed anche nell’ultima relazione il Governatore ci è tornato sopra, parlando di “circolo vizioso di bassi salari e modeste opportunità di impiego che scoraggiano gli stessi investimenti in istruzione” e quindi i giovani più istruiti trovano spesso la strada della emigrazione per avere le giuste opportunità e responsabilità e per dimostrare il proprio valore.

La ripartenza del Paese deve tutelare prioritariamente il lavoro ed i lavoratori e sarebbe pericolosa una ulteriore destrutturazione del sistema imprenditoriale proprio in vista dell’auspicato avvio degli investimenti previsti dal Pnrr. È il momento di tenere insieme il Paese a cominciare proprio dal mondo del lavoro, questa è una delle ragioni che spingono la Cisl a chiedere un nuovo Patto Sociale, perché occorre ripartire insieme assumendo ognuno la propria parte di responsabilità e garantendo il massimo impegno per il rilancio dell’Italia.