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Giovani e adulti, una sana asimmetria da vivere gomito a gomito

Quando i Vescovi parlano o scrivono di giovani, rischiano sempre di ripetere luoghi comuni, o di lamentarsi. A evitare – almeno lo spero! – il rischio, mi aiutano due passaggi dell’Esortazione post sinodale Christus vivit: “la gioventù non esiste, esistono i giovani con le loro vite concrete” (n. 71); “il cuore di ogni giovane deve pertanto essere considerato “terra sacra”, portatore di semi di vita divina e davanti al quale dobbiamo “toglierci i sandali” per poterci avvicinare e approfondire il Mistero” (n. 67). Del resto, già Pier Paolo Pasolini, col suo solito stile graffiante e corsaro, era stato chiaro: “una parola, giovani, che, scientificamente, non significa quasi nulla eccetto che nel campo biologico…L’unica cosa che si può dire “in generale” di loro è che sono molto meglio dei grandi”.

A evitare il rischio della banalità, mi aiuta anche la contestualizzazione. Perché la pandemia ha fatto emergere con più chiarezza quando già potevamo sapere, ma fingevamo di non vedere: è emersa una grande capacità di resilienza e di adattamento, soprattutto nei due mesi del lockdown (anche in questo, “molto meglio dei grandi”); ma, a lungo andare, il disagio è cresciuto in modo esponenziale.

Come di recente mi scriveva un’amica psicoterapeuta, che lavora molto con gli adolescenti, al sert, in studio e nelle scuole: “il lavoro di sportello si fa sempre più complicato…un sacco di situazioni difficili da ogni dove. Siamo di fronte a un cambiamento che impone anche a noi di riadattarci, altrimenti assisteremo a spaccature irrimediabili e i ragazzi non li raggiungeremo più. E i ragazzi stanno molto male”. E ascoltavo un giorno alla radio un educatore dire che gli adolescenti, oggi, sono il più grande campo profughi d’Europa!

Ma la parola più forte ed efficace, come al solito, è di Papa Francesco. Così a febbraio,  incontrando  il Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede: “assistiamo a una sorta di catastrofe educativa, davanti alla quale oggi c’è bisogno di una rinnovata stagione di impegno educativo, che coinvolga tutte le componenti di una società” (anche perché, come disse anni fa citando un proverbio africano: “per fare un uomo ci vuole un villaggio”).

Ecco il binomio inscindibile: la catastrofe e il rinnovato impegno educativo. Perché – come scrisse Ernesto De Martino in alcuni appunti raccolti con il titolo “La fine del mondo”– esiste anche la possibilità di una “catastrofe vitale“. Se sapremo imparare la lezione del Covid…

Oggi i ragazzi e i giovani chiedono vicinanza. Chiedono adulti che rimangano tali, e non bamboccioni mai cresciuti (anche a cinquant’anni…). Ma il contesto digitale chiede anche una diversa modalità di vivere la inevitabile, sana asimmetria che la relazione educativa esige: non potrà essere più un’asimmetria verticale, autoritaria, ma dovrà essere una asimmetria vissuta gomito a gomito, di chi fa strada con i ragazzi, e li accompagna senza sostituirsi a loro. Del resto, non ha fatto così Gesù, la sera di Pasqua, con i due discepoli in fuga verso Emmaus?

I ragazzi cercano oggi educatori promettenti, perché “l’educazione è il complesso degli atti mediante i quali i genitori rendono ragione al figlio della promessa che essi gli hanno fatto mettendolo al mondo” (Angelini). E’ una sfida bella, che può aiutare adulti e genitori ha ritrovare passione educativa, e a mettersi in gioco!

Per i discepoli del vangelo, poi, c’è anche dell’altro: permettere a chiunque d’incontrarsi con Gesù, che è per tutti – anche per i ragazzi! – via, verità e vita. Ma perché questo accada occorre che le nostre Parrocchie passino finalmente (colgo qui uno spunto di Armando Matteo) dalla pastorale dell’imbuto (riempire la testa e il cuore della gente, e in particolare dei bambini e dei ragazzi) alla pastorale, appunto, dell’incrocio. Come a Emmaus: la vita di Gesù che incrocia la vita di quei due!

Ai ragazzi, oggi, occorre fare spazio nelle nostre Comunità, “dare loro le chiavi”, e fidarsi. Perché anche oggi Gesù continua ad essere cercato, anche se in forme molto diverse da quelle alle quali la Chiesa (e io per primo!) era abituata. E anche la fede dei giovani –incerta, inquieta, intermittente – ci deve interpellare: ci è chiesto di riconoscerla come autentica, anche se, forse, ancora in cammino (ma quale fede non è sempre in cammino?). Forse, sarà proprio dall’incontro tra  modi e linguaggi diversi con cui vivere la fede che nascerà la Chiesa di domani.

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