Deposito nazionale rifiuti radioattivi: di cosa si tratta e cosa bisogna sapere

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È tornato recentemente agli onori della cronaca il “Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi”. Il motivo è la pubblicazione e divulgazione da parte del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica della proposta di Carta Nazionale delle Aree idonee che “individua le zone dove realizzare in Italia il Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi e il Parco Tecnologico, al fine di permettere lo stoccaggio in via definitiva dei rifiuti radioattivi di bassa e media attività”. Un tema complesso rispetto al quale il Ministro Pichetto Fratin, intervenuto su questo a margine durante la kermesse Atreju in Roma, ha rilevato come sia “passato un messaggio un po’ falso” aggiungendo che “questo Governo … si è assunto il dovere di dare una risposta seria e nazionale a questo tema”.

Quanto al primo passaggio in effetti, anche a leggere quanto è stato variamente scritto sulla pubblicazione della Carta le informazioni veicolate sembrano non sempre congruenti con il quadro generale. È quindi utile ricostruire i lineamenti principali della questione. La gestione finale, unitaria e centralizzata, dei rifiuti radioattivi si rende necessaria per trovare una collocazione adeguata a rifiuti provenienti da una duplice filiera. La prima è dei residui derivanti dall’esercizio e dallo smantellamento delle centrali nucleari italiane (disattivate nel 1987) la cui attività è in capo alla Società Sogin S.p.A. (interamente partecipata dal Ministero dell’Economia), e che produrrà il 60% dei rifiuti presenti nel deposito. La seconda è quella degli altri produttori cui afferiscono attività di ricerca, sanità e industria che avrà a disposizione il 40% dei volumi complessivi.

In quest’ottica il Deposito Nazionale ha il duplice obiettivo di colmare una lacuna che riguarda pagine storiche del nostro paese e di porre le basi per un futuro sostenibile e virtuoso. Ad oggi, infatti, i materiali e/o rifiuti radioattivi sono variamente disseminati (e a diverso grado condizionati) su tutto il territorio nazionale, in circa 20 siti. Non tutti i rifiuti che verranno conferiti presso il Deposito Nazionale avranno le stesse caratteristiche e soprattutto la stessa radioattività. La maggior parte di essi (circa 78.000 m3) è classificato come a “molto bassa/bassa radioattività” ovvero che nel volgere di un tempo che va dai 10 ad alcune centinaia di anni raggiunge valori di attività di esposizione trascurabile. Per questa tipologia di rifiuto il Deposito Nazionale si prefigge il raggiungimento di condizioni di smaltimento definivo: i rifiuti giungeranno presso l’area realizzata già dotati di una prima barriera e verranno raccolti e inseriti in un contesto che avrà ulteriori 3 livelli di sicurezza e confinamento che isoleranno progressivamente il rifiuto, non in un’unica e indistinta massa ma in sub celle di circa 4.500 m3 ciascuna. A questi quattro presidi di sicurezza si aggiunge il quinto: quello garantito dall’idoneità del sito per le proprie caratteristiche geologiche intrinseche.

A lavori conclusi il Deposito Nazionale avrà la configurazione di una collinetta, essendo le strutture di contenimento parzialmente interrate, per una superficie di progetto preliminare pari a dieci ettari. La restante volumetria verrà ospitata in modo temporaneo di lunga durata: circa 17.000 m3 classificati come a “media/alta radioattività”, il cui tempo di decadimento è dell’ordine delle migliaia di anni. Questi rifiuti sono destinati al deposito definitivo in una idonea barriera geologica profonda che dovrà essere individuata. Per il tempo necessario saranno stoccati nell’ambito del Deposito Nazionale in una struttura distinta e dedicata denominata Complesso Stoccaggio Alta attività: su un’area di circa 10 ettari saranno realizzati 4 edifici al cui interno ospitare i rifiuti preventivamente condizionati e collocati in idonei contenitori o volumi adeguati alla schermatura. Poiché la previsione del Complesso Stoccaggio Alta attività è una capacità di esercizio tra 50 e 100 anni, durante la vita complessiva del Deposito Nazionale (esercizio, chiusura e controllo per circa 400 anni) la maggior parte dei rifiuti ospitati sarà del tipo di “molto bassa/bassa radioattività”. Invero, l’intervento nel suo complesso non si presenta solo come un mero deposito. I progettisti parlano di una vera e propria “infrastruttura ambientale” che si estenderà su oltre 110 ettari ospitando anche un “Parco Tecnologico, un centro di ricerca aperto a collaborazioni internazionali, nel quale si svolgeranno attività nel campo energetico, della gestione dei rifiuti e dello sviluppo sostenibile”. È peraltro necessario sottolineare come il processo di realizzazione e di esercizio del Deposito Nazionale avverrà in modo molto progressivo. Non tutti i rifiuti che si prevede di conferire sono attualmente già prodotti anzi: solo 33.000 m3 di rifiuto sarebbero attualmente trasferibili. Il processo di realizzazione durerà almeno 4 anni e il trasferimento dei rifiuti avverrà nell’arco di circa 40 anni.

Al di là degli aspetti tecnici la questione è risalente. Del “problema della sistemazione dei rifiuti radioattivi presenti sul territorio nazionale” si occupò sul finire degli anni 90 l’attività della Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse della Camera dei Deputati. Ma per la fase di cui parliamo, quella del progetto preliminare, il Deposito Nazionale è sul tavolo dal 2010 (Decreto Legislativo 31/2010). Dopo anni di sordina, nel 2020, si inizia a parlare di aree “potenzialmente idonee” ad ospitare la realizzazione. Si tratta di 67 luoghi identificati sulla base di uno screening svolto da Sogin, condotto in linea con il protocollo predisposto dall’Istituto Superiore per la Ricerca e Protezione Ambientale (ISPRA) aderente ai più alti standard internazionali, validato dall’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (ISIN). Questione risalente e anche delicata. Che ha da sempre sollecitato le istanze, preoccupazioni o prerogative dei vari territori.

Per questo la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee è stata oggetto di consultazione pubblica, conclusa nel luglio 2021 raccogliendo i punti di vista e le valutazioni dei territori interessati. Dopo aver ricevuto “300 osservazioni e proposte tecniche, per oltre 20.000 pagine costituite da atti, documenti, studi, relazioni tecniche e cartografie” si è giunti all’attuale proposta di Carta Nazionale delle Aree Idonee nella quale i siti che corrispondono ai criteri di idoneità sono pari a 51 . Non è ancora una rappresentazione lapidea. Non solo perché in ogni caso la progettazione definitiva ed esecutiva a farsi dovrà passare al vaglio di un ulteriore fase di consultazione pubblica, come previsto dall’ordinamento comunitario della Valutazione Ambientale Strategica e di una vera e propria consultazione tecnica di merito dell’Autorizzazione Integrata Ambientale e della Valutazione di Impatto Ambientale. Ma soprattutto perché con il recente decreto Energia il Governo ha previsto un “inedito” modello di gestione dei conflitti derivanti dalla realizzazione di infrastrutture ad alto impatto ambientale: quello dell’auto-candidatura. Le amministrazioni, anche quelle non ricomprese nella proposta di ubicazione, possono chiedere una valutazione al Ministero dell’Ambiente sull’idoneità ad ospitare le strutture. Se sentimenti di diffidenza quando non apertamente di rifiuto sono comprensibili soprattutto quanto hanno anche una chiara cornice di riferimento (si pensi ai territori a vocazione agricola o turistica, ma anche alle fragilità geologiche del territorio italiano e alla loro percezione) la realizzazione del Deposito Nazionale (che rimane una necessità di carattere generale) deve essere vista anche come una opportunità: oltre 900 milioni di euro di investimento per la sua messa in opera ed esercizio con ricadute occupazioni che superano le 5000 unità e ricadute indirette dal Parco Tecnologico. A ciò si aggiunge un sistema che prevede (oggi ancora in via preliminare) un contributo economico diretto come forma compensativa per le comunità dei territori interessati.